Roberto Farnè: a proposito di scuola paritaria, dopo il referendum…

lisasolonynko











A distanza un mese e mezzo dal referendum consultivo che si è tenuto a Bologna domenica 26 maggio, dove i cittadini sono stati chiamati ad esprimersi sull’abolizione del finanziamento erogato dal Comune alle scuole
dell’infanzia paritarie gestite da enti privati, si può riprendere una riflessione sul quel tema di politica della scuola, fuori dagli accesi dibattiti della campagna elettorale. Ricordiamo che al centro della questione referendaria c’era un milione di euro circa, il 2,8% di tutto il bilancio che Bologna investe sulle scuole dell’infanzia, dove il 61% dei bambini da 3 a 6 anni frequenta scuole comunali, il 21% paritarie private, il 18% statali. Bologna è la città che in Italia investe di più sulla scuola dell’infanzia: oltre 36 milioni di euro. Il referendum che, come è noto, è stato vinto (59% contro 41%) dal Comitato Articolo 33 che lo ha promosso e ha portato al voto meno di un terzo dei cittadini, ha avuto un grande merito: quello di riaccendere l’attenzione e il dibattito sulla scuola, in particolare quella dell’infanzia, che da molto tempo era spento in una città che è (stata) un punto di riferimento nelle politiche e nella qualità dei servizi educativi. Ce n’era davvero bisogno e c’è da sperare, comunque uno la pensi, che questa attenzione non si spenga sull’esito del referendum.
La questione che rimane sul tavolo, e che va al di là delle mura di Bologna, è la legittimità che scuole dell’infanzia gestite da enti privati e riconosciute come paritarie possano ricevere finanziamenti pubblici. Ciò avviene in ragione della legge 62/2000 (Norme per la parità scolastica e disposizioni sul diritto allo studio e all'istruzione), cosiddetta “Legge Berlinguer”, che afferma che «Il sistema nazionale di istruzione è costituito dalle scuole statali e dalle scuole paritarie private e degli enti locali». La legge specifica in maniera dettagliata cosa si intenda per “paritaria” e a quali criteri debba ottemperare una scuola per ottenere tale riconoscimento e accedere così ai finanziamenti pubblici. La domanda è: sostenere con soldi pubblici le scuole paritarie contraddice l’articolo 33 della Costituzione dove afferma «Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato»? Sì, secondo i promotori del referendum, prendendo alla lettera quel dettato; No secondo i comitati e i gruppi che si sono opposti dicendo: a) se così fosse, allora la “legge Berlinguer” dovrebbe essere dichiarata incostituzionale; b) l’affermazione dell’art.33 parla di scuole che vengono “istituite” senza oneri per lo stato, cioè se un ente o una fondazione vuole istituire una scuola ha diritto a farlo ma non chiedendo soldi allo stato (dove “istituire” significa fondare, costruire…); c) esiste l’art.118della Costituzione, che definisce i termini della “sussidiarietà” e dove si legge che «Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l'autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà», non v’è dubbio che la scuola sia questione di interesse generale e dunque in base al principio costituzionale della sussidiarietà vanno sostenuti i soggetti sociali che la promuovono, avendo il riconoscimento di scuole paritarie.

Ciò che si afferma con la legge 62/2000 è che “pubblico” non è sinonimo di “statale” (le stesse scuole dell’infanzia comunali sono paritarie). Dunque: dove sta il problema? Il problema, forse, sta nel fatto che le scuole dell’infanzia paritarie sono almeno all’80% di ispirazione cattolica, come tali contraddicono, secondo i referendari, il principio della laicità della scuola e dunque non dovrebbero accedere a finanziamenti pubblici, ma sostenersi unicamente con i propri fondi e le rette pagate dalle famiglie. Domanda: se le scuole paritarie fossero in larga maggioranza gestite da altri enti come cooperative, fondazioni, associazioni culturali non-cattoliche ecc. verrebbe ugualmente sollevato il problema? Sarei portato, sulla base di una “legittima suspicione” a rispondere no. La ragione è che la scuola e l’educazione sono un fronte su cui storicamente nel nostro Paese la contrapposizione fra laici e cattolici (detto un po’ grossolanamente) è sempre stata molto forte; sulle leggi che hanno riguardato la scuola sono caduti vari governi.

Affermare il primato della laicità della scuola pubblica come sinonimo di libertà, contro le scuole paritarie che sarebbero invece vincolate a un “progetto pedagogico” è una colossale sciocchezza (eppure c’è chi lo ha sostenuto nella campagna referendaria). L’idea che le scuole dell’infanzia statali (e comunali) non abbiano un progetto pedagogico dovrebbe preoccupare tutti. Una scuola dell’infanzia di ispirazione cattolica, una che segue la pedagogia steineriana (che ha una sua visione del mondo), un’altra orientata in senso montessoriano, contraddicono i principi della Costituzione che riguardano i valori di fondo della nostra comunità civile e gli Orientamenti educativi che riguardano l’essere scuola pubblica?

Il principio della laicità, nella scuola statale, implica che, come è scritto nella Costituzione, “L’insegnamento è libero”, nel rispetto delle normative che regolano l’istituzione; cioè la scuola statale non è tenuta a professare un modello pedagogico (e a pretenderlo dai suoi insegnanti), ma si attiene agli orientamenti/programmi che lo stato le assegna e che rappresentano il livello massimo della condivisione sul piano della politica educativa della nostra repubblica. Tale contesto garantisce al singolo insegnante la libertà del suo insegnamento. Nessun genitore ha diritto di chiedere all’insegnante di suo figlio nella scuola pubblica se è ateo o credente, liberale o marxista, né gli può chiedere di praticare un metodo pedagogico piuttosto che un altro. La libertà di insegnamento di un maestra ha un limite invalicabile: non può diventare indottrinamento ideologico o confessionale di qualsivoglia specie.

La laicità non è neutralità e l’educazione non è mai neutrale, sia perché non lo è la cultura che si trasmette attraverso l’educazione, sia perché un insegnante insegna prima di tutto se stesso: è la sua onestà intellettuale che deve garantire il rispetto dei valori della costituzione e dei principi che ne derivano nella scuola. Francamente finora non mi è capitato di vedere bambini di 6 anni uscire da una scuola dell’infanzia cattolica con la testa formattata a Santa Romana Chiesa; dichiarare un indirizzo pedagogico sulla base di un orizzonte di senso o di una metodologia non significa plagiare le menti dei bambini o inibire la loro libertà. Ci sono scuole paritarie che esprimono una buona qualità didattica e altre meno, come succede nelle scuole statali e comunali; la qualità didattica non è ascrivibile a priori alle scuole pubbliche o a quelle paritarie. Ciò che veramente è in gioco non è la supposta “cornice ideologica”, ma la competenza pedagogica dell’insegnante, la sua vivacità culturale, la sua expertise didattica e , lo ripeto, la sua “onestà intellettuale”, che si potrebbe anche tradurre in deontologia pedagogica.

Il criterio della qualità didattica di una scuola e della professionalità dei suoi insegnanti e dirigenti, dell’impegno e dei risultati ottenuti su progetti educativi difficili, dovrebbero essere gli indicatori in base ai quali assegnare fondi pubblici alle scuole, ma bisognerebbe convenire sulla necessità di criteri di valutazione della professionalità degli insegnanti e della qualità didattica di ogni scuola. Finora si è preferito dire che sono tutti uguali, anche se tutti sappiamo che non è così. La scuola finge di non accorgersi che, seppure in maniera del tutto informale, al valutazione avviene, attraverso passaparola e gossip: i genitori che devono iscrivere il bambino alla scuola dell’infanzia (come alla primaria e così via salendo di grado) raccolgono informazioni perlopiù da altri genitori su quale sia migliore, girano voci sulle qualità di singoli insegnanti, sulla scuola dove c’è più impegno, dove si fanno esperienze più innovative ecc. Per non parlare delle “perplessità” che riguardano la presenza di bambini stranieri, handicappati…I genitori fanno la loro “valutazione” e così si scopre che ci sono scuole la cui “valùta” pedagogica e didattica è particolarmente richiesta, mentre altre subiscono una “svalutazione”.

La parola “competizione” non è molto amata nel mondo della scuola, eppure è una bella parola, viene dal latino cum-petere, che vuol dire chiedere insieme, condividere qualcosa. Due giocatori o due squadre sono in competizione perché, innanzi tutto, condividono il gioco, le regole, il campo. E’ esattamente ciò che i bambini fanno quando decidono di organizzare tra loro un gioco. Nel nostro caso non si tratta di vincere o perdere, ma del confronto aperto su diversi modi di fare scuola e sugli esiti che si ottengono, per un obbiettivo comune: contribuire tutti, ognuno con la propria specificità, al miglioramento dell’educazione. La legge sul sistema integrato va in questa direzione.

Il sistema pubblico integrato delle scuole è quello che garantisce la laicità della scuola nel suo insieme: cioè la compresenza di differenti realtà scolastiche, ferma restando la centralità della scuola pubblica statale, in cui vi siano anche scuole che esprimono specifici orientamenti pedagogici e didattici, che si confrontano alla pari e garantiscono libertà di scelta. Tutte svolgono un servizio pubblico perché condividono ciò che significa essere e fare un servizio pubblico. Mi piace usare la metafora della biodiversità: un ambiente cresce e si sviluppa perché diverse forme di vita lo abitano e lo condividono e interagiscono fra loro, ognuna con la propria specificità. Le monocolture uccidono l’ambiente. Scuole con identità diverse possono far crescere la qualità educativa della società che abitano e di cui condividono il terreno, l’aria, l’acqua.

Strana storia questa delle scuole “private”: tutti riconoscono che la scuola di Barbiana è stata un modello di scuola democratica ed inclusiva. Lettera a una professoressa, il libro-manifesto uscito da quella scuola, è stato il più feroce e rigoroso atto d’accusa alla scuola pubblica. Barbiana era una scuola parrocchiale gestita da un prete-maestro che si chiamava don Lorenzo Milani; i suoi alunni erano tutti bambini bocciati nella scuola statale. Svolgeva un servizio pubblico quella scuola? Io credo di sì, e se oggi ci fosse sarebbe il caso di finanziarla.





Roberto Farné vicedirettore del dipartimento di Scienze per la Qualità della Vita, Università di Bologna.