"Non si possono ignorare le specificità dei bambini adottati". Adozione e scuola: intervista ad Anna Guerrieri






Le linee guida per il diritto allo studio dei bambini adottati hanno da poco compiuto un anno. Nate dalla collaborazione tra il Miur e le associazioni delle famiglie, le linee di indirizzo forniscono indicazioni per migliorare e rendere uniforme l’accoglienza scolastica dei bambini adottati, in particolar modo quelli arrivati in Italia attraverso l’adozione internazionale.
Tra il 2010 e il 2013 sono stati circa 14 mila i minori adottati internazionalmente: il numero però non basta a giustificare il documento la cui genesi risale a diversi anni fa, quando è iniziata a crescere l’età dei bambini adottati. Oggi molti bambini arrivano in famiglia intorno ai 6 anni, un momento delicato che spesso coincide con l’ingresso a scuola.  “Adozione non è sinonimo di problematicità ma i bambini adottati presentano delle specificità che la scuola non può ignorare” spiega Anna Guerrieri presidente dell’associazione Genitori si diventa e vicepresidente del Care, il coordinamento delle associazioni che riunisce le famiglie adottive e affidatarie.  Docente di matematica all'università dell’Aquila e mamma adottiva, Anna Guerrieri ha partecipato alla stesura delle linee guida e ne ha seguito il percorso fin dal 2010.



È passato poco più di un anno da quando a dicembre del 2014 il Miur ha pubblicato le Linee di indirizzo per favorire il diritto allo studio dei bambini adottati. Che importanza riveste questo documento?
L’inserimento e la vita scolastica dei bambini è un tema delicato per le famiglie adottive e in Italia mancava una prassi condivisa. Penso ad esempio alla possibilità di aumentare di un anno la frequenza della scuola dell’infanzia: alcuni lo permettevano altri lo facevano solo dietro presentazione di una certificazione medica. Le linee guida suggeriscono delle buone prassi su questo come su molte altre questioni e criticità che possono accompagnare la vita scolastica di un bambino adottato.

Molti bambini vengono adottati tra i cinque e i sei anni d’età e l’adozione coincide con l’ingresso alla scuola primaria. Quali criticità comporta?
 Tra il 2005 e il 2007 sono aumentate le adozioni di bambini in età scolare e prescolare, molti bambini vengono adottati tra i 5 e i 6 anni e devono affrontare tanti cambiamenti. Molti bambini non sono mai stati scolarizzati o hanno vissuto per tanto tempo in istituto: è giusto lasciare loro il tempo di adattarsi alla nuova situazione e alla vita famigliare anche differendo di qualche mese l’ingresso in classe. Il consiglio che noi come associazione diamo ai genitori è sempre quello di permettere al bambino di adattarsi prima di iniziare a frequentare la scuola. Questa possibilità, prevista nelle linee guida, serve ai bambini ed anche ai genitori: far coincidere l’arrivo in famiglia con l’inizio della scuola può scombussolare ulteriormente un bambino che si trova a vivere importanti cambiamenti di vita.

L’esistenza di un documento come questo non corre il rischio di alimentare un pregiudizio?
Ci siamo interrogati tanto su questo sia con il Ministero che con gli esperti che hanno contribuito a scrivere le linee guida.  Abbiamo specificato più volte nel testo che la parola “adottato” non implica un destino e non è sinonimo di problematicità. Sappiamo, però, che la scuola può essere un terreno problematico e far emergere le fragilità di tante famiglie adottive e crediamo che le linee guida siano uno strumento importante sia per gli insegnanti che per i genitori. I Bambini adottati hanno diritto a vedere riconosciuta la loro storia e questo documento può aiutare a comprendere che, dietro la storia di ciascun bambino, c’è un elemento comune: l’essere stato adottato, una condizione che permane per tutta la vita. Le difficoltà che questi bambini possono incontrare nel percorso scolastico non derivano solo dall'adozione ma da tutto il loro vissuto e le linee guida sono uno strumento per affrontarle. 

Quali sono le difficoltà che si presentano più frequentemente?
Vari studi hanno dimostrato che i bambini adottati presentano disturbi specifici dell’apprendimento, con una frequenza maggiore rispetto ai coetanei e questo, pur non essendo una tragedia e una questione in più che deve essere affrontata.  Inoltre, va anche considerato che, quando si adotta un bambino, non se ne conosce la storia medica e non si sa come sia andata e cosa sia accaduto durante la gravidanza: eventuali problemi, legati ad esempio ad un uso di droghe o ad un abuso di alcol da parte della madre biologica, potrebbero emergere anche dopo tempo così come problemi legati ad un parto prematuro. Allo stesso modo potrebbero emergere problemi di tipo relazionale legati ad esempio ad una lunga permanenza in istituto. Stiamo parlando di situazioni di criticità che potrebbero generare difficoltà di controllo emotivo che possono far apparire i bambini oppositivi oppure molto introversi. Tutto ciò, anche in assenza di DSA, potrebbe riflettersi in difficoltà cognitive che spesso si riacutizzano nel passaggio dalle medie alle superiori. Ed è anche per questo che nelle linee guida chiediamo una grande attenzione per il periodo della preadolescenza e dell’adolescenza.

Quest’attenzione manca?
L’adolescenza coincide con il passaggio dalle scuole medie alle superiori., scuole in cui, rispetto alla scuola dell’infanzia e alla scuola primaria, c’è una minore abitudine degli insegnanti ad una formazione su questioni di tipo psicopedagogico. Si tratta di una fase delicata per tutti e lo è in maniera particolare per i ragazzi e le ragazze adottate che si trovano ad interrogarsi sulla propria identità e a rivivere la propria storia. In questa fase le risposte rassicuranti avute da bambini dai genitori spesso non bastano più e, anche se non tutti allo stesso modo, gli adolescenti si misurano con le proprie origini. Si tratta di difficoltà che la scuola può amplificare quando, ad esempio, si accompagnano a difficoltà nel rendimento scolastico. Le famiglie adottive sono famiglie in cui i genitori hanno un livello di istruzione medio alto e i ragazzi si chiedono se potranno essere come loro. La crisi di appartenenza dell’adolescenza spesso richiede ai ragazzi adottati una maggiore fatica rispetto agli altri e si manifesta in un contesto, quello delle scuole medie e superiori, in cui, rispetto alla scuola dell’infanzia e alla scuola primaria, c’è una minore abitudine degli insegnanti ad una formazione su questioni di tipo psicopedagogico, formazione che potrebbe rivelarsi molto utile.

Facciamo un passo indietro e torniamo all’inizio del percorso scolastico. Quali sono i problemi che possono emergere nella scuola primaria e come possono essere affrontati?
Come ho già detto, i bambini possono andare incontro a difficoltà legate alla frammentarietà della propria storia. I bambini, pur nella diversità di ciascuno, presentano delle vulnerabilità legate al proprio vissuto, alla permanenza in istituto e a gravidanze di cui non si sa praticamente nulla. Si tratta di difficoltà davanti alle quali la scuola può e deve essere flessibile. Parlo di flessibilità nei tempi di inserimento, della possibilità di frequentare la scuola dell’infanzia fino ai 6 anni e di quella, per alcuni bambini, di essere inseriti in una classe inferiore rispetto a quella prevista in base all’età anagrafica. La scuola, inoltre, può e deve essere flessibile anche rispetto alla didattica che deve essere inclusiva.

Può fare un esempio?
Pensiamo allo studio della storia: si inizia in seconda elementare con la storia personale. Se un’insegnante ha in classe dei bambini adottati non dovrebbe, ad esempio, fare domande troppo specifiche del tipo “quando hai tolto il ciuccio?” ,“qual è la prima parola che hai detto?”, “chi ha scelto il tuo nome?”.  Il concetto dello "scorrere del tempo" e quelli di "prima" e "dopo" possono essere insegnati in modo diverso ad esempio prendendo come punto di riferimento l’inizio della scuola.  Alcuni bambini racconteranno di essere stati adottati e di aver vissuto in istituto, altri no. Ci sono fasi in cui il bambino non vorrà raccontare la sua esperienza e altri in cui sarà desideroso di farlo. Questi desideri vanno rispettati.  Aggiungo che andrebbe anche fatto un grande lavoro sui libri di testo dove raramente esistono le famiglie adottive e le altre famiglie che non rientrano nel modello “Mulino Bianco”: penso alle famiglie in cui i bambini vivono con un solo genitore o con due mamme o due papà, così come le famiglie dove i nonni sono morti o malati.

Nelle linee guida viene dedicato ampio spazio anche alla questione della lingua. Perché?
L’esperienza e gli studi mostrano che i bambini adottati internazionalmente imparano molto rapidamente la lingua del paese in cui arrivano: è la lingua che serve per comunicare ed è anche la lingua degli affetti. I bambini che arrivano in Italia imparano rapidamente l’italiano e questo apprendimento avviene accantonando la lingua d’origine. A differenza dei bambini immigrati che in casa continuano a parlare la lingua d’origine, i bambini adottati la “mettono via” e apprendono la nuova lingua in maniera “sottrattiva”.  A questa rapidità di apprendimento della lingua usata per comunicare si può, però, affiancare una difficoltà nell’apprendere i linguaggi specifici e tecnici delle diverse materie scolastiche e nel comprendere concetti sempre più astratti.  Gli studi stanno evidenziando che le difficoltà maggiori le incontrano i bambini adottati tra i tre-quattro e sette anni di età, mentre chi viene adottato quando è molto piccolo e chi aveva una lingua d’origine ben consolidata ha in genere meno difficoltà. Ciò può essere legato anche alle modalità di apprendimento della lingua d’origine: chi cresce in un istituto non impara la lingua allo stesso modo di un bambino che fin da piccolissimo viene continuamente preso in braccio da una mamma che gli parla e gioca con i suoni.  Capita che i bambini adottati abbiano delle difficoltà e dei ritardi linguistici anche nella lingua d’origine.

Quali strategie andrebbero messe in pratica?
Molte difficoltà linguistiche esplodono nel passaggio tra le medie e le superiori quando crescono le competenze linguistiche richieste dalla scuola. Gli insegnanti spesso si chiedono perché i ragazzi hanno ancora dei problemi di lingua o emergono problemi con lo studio di materie che richiedono un linguaggio tecnico. Una conoscenza delle modalità specifiche di apprendimento della lingua da parte dei bambini adottati e di alcune specificità connesse a questa condizione potrebbero spiegare queste difficoltà e aiutare a trovare strategie per superarle. L’esperienza, ad esempio, mostra che, anche in assenza di DSA, le mappe concettuali e il dare tempo per elaborare il discorso si rivelano delle strategie utili.  Il tentativo di risolvere le difficoltà linguistiche dei ragazzi adottati affiancandoli ai ragazzi stranieri, per i quali l’italiano è L2, può, invece, non essere positivo perché, in un momento in cui stanno cercando la propria identità, potrebbe farli sentire “stranieri”.  Credo sia, ancora una volta, una questione di flessibilità: il rafforzamento linguistico non può essere standardizzato.

Le classi sono sempre più multietniche. Come considera questo cambiamento?
Credo che per i bambini e i ragazzi adottati la presenza di compagni di classe appartenenti ad etnie differenti sia un’opportunità in più. La varietà etnica ha costretto la scuola ha fare una sorta di “ginnastica” per imparare a vedere il mondo come non uniforme.  La multiculturalità permette di sperimentare che esistono tante differenze e questo per un ragazzo adottato è veramente molto importante.

Facciamo un altro passo indietro. Tra le difficoltà che i bambini adottati incontrano a scuola ci possono essere anche quelle di tipo psicoemotivo. La scuola è in grado di fronteggiarle?
I bambini oppositivi sono, in generale, più difficili da gestire. Davanti a problematiche di questo tipo serve una forte alleanza tra la scuola e la famiglia e una maggiore formazione degli insegnanti. Esiste ancora la tendenza ad escludere i bambini che disturbano o che hanno atteggiamenti di tipo oppositivo. Mentre si è fatto tanto per l’inserimento dei bambini con disturbi dell’apprendimento, di fronte ai bambini problematici, adottati e non, c’è ancora la tendenza a serrare i ranghi e a relegare i bambini in un ruolo negativo.  Questo rischia di generare solitudine nelle famiglie che possono sentirsi isolate o inadeguate. Bomber nel suo Feriti dentro offre spunti interessanti sulle strategie che possono essere messe in atto per l’inserimento dei bambini che mostrano disturbi dell’attaccamento. Lo studio non riguarda in modo specifico i bambini adottati ma i bambini che hanno vissuto esperienze traumatiche come l’abbandono, il maltrattamento: esperienze che possono riguardare anche i bambini adottati.

BolognaNidi si occupa prevalentemente di nidi e scuole dell’infanzia, che importanza hanno queste realtà educative quando si parla di bambini adottati?

I bambini adottati che vanno al nido sono pochissimi e dunque non abbiamo posto un’attenzione specifica su questi servizi educativi. La scuola dell’infanzia, invece, ha un’importanza fondamentale: i bambini adottati possono frequentarla dai 3 ai 6 anni compiuti e dunque stare alla scuola dell’infanzia più dei loro coetanei. Sappiamo che la scuola dell’infanzia ha una grandissima capacità di inclusione e riveste un ruolo fondamentale per molte famiglie anche per la capacità che le insegnanti hanno di interrogarsi davanti all’emergere di eventuali problemi.