Come si realizza un buon sostegno a scuola? Parola all'esperto




















Intervista a... Vincenzo Gramegna coordina gli insegnati di sostegno in alcune scuole statali dell’infanzia e della scuola primaria a Bologna. Gestisce anche una pagina e un gruppo Fb che si occupano di documentazione educativa. Coordina in particolare di tre scuole primarie e tre dell’infanzia e lavora in un quartiere particolarmente interessante, si concentrano tanti bambini certificati. “E’ un bacino di riferimento importante anche rispetto ai bambini appena arrivati in Italia”. Prima di ricoprire questo ruolo ha girato in molte province tra nord e sud e ormai ha una certa esperienza sul campo. Risponde alle mie tante domande in tono pacato, quasi indifferente, ma è appassionato al suo lavoro, lo si capisce da come si anima e dal ruolo che immagina dovrebbe avere la scuola verso la società. L’abbiamo incontrato per parlare di sostegno, integrazione e scuola.

Cosa dovrebbe garantisce un buon sostegno?
Fare sostegno significa fare educazione. Come l’educazione, anche il sostegno, dovrebbe puntare all’indipendenza e alla libertà dell’individuo.
Come si realizza un buon sostengo?
Con personale formato e preparato. Spesso si crede, o si fa credere, che per fare sostengo basti aver buon cuore che sia sufficiente voler bene i bambini, non è così! Fare sostegno significa affrontare tante diverse problematiche e malattie. Significa relazionarsi con medici e neuropsichiatri. Come si può lavorare bene senza conoscere, senza essere preparati? La formazione è importantissima.
Quali sono gli ingredienti indispensabili per un buon sostegno?
Direi che ci sono tre i pilastri su cui dovremmo basarci: una buona formazione, buoni strumenti tecnologici e spazi adatti.
La Buona scuola prevede il titolo di laurea per fare sostegno. E’ d’accordo?
So che molti miei colleghi hanno criticato questa riforma. Io invece condivido la necessità di un titolo di laurea. Uno studio qualificato è indispensabile come base di partenza.
Ci sono handicap più difficili di altri da inserire in classe?
Certo. In generale i soggetti autistici sono tra i più difficili da gestire. Fanno paura e c’è poca conoscenza rispetto alla sindrome.
Perché c’è paura?
Il problema dell’individuo autistico è che non sa comunicare. Se non vuole più mangiare, ad esempio, può esprimerlo infilandosi delle forbici in bocca. Azioni del genere hanno un effetto dirompente in classe e spaventano molto.
E quindi?
Quindi è indispensabile aiutare i bambini a comunicare in modo diverso. E’ possibile farlo anche con tecniche collaudate, che educa i bambini affetti da autismo ad esprimersi con comportamenti socialmente più accettabili.
Capita mai che non si ottenga il risultato sperato? Come si procede in quel caso?
Certo che capita. E quando accade si deve individuare l’errore e cambiare modalità. Il bello del nostro lavoro è che si sperimenta. Si provano strade diverse finché non si raggiungono dei risultati. L’importante è tenere a mente che quando il soggetto non apprende l’errore non sta mai nel soggetto ma nell’insegnante. Va cambiato la modalità con cui si è tentato di comunicare. Questo non vale solo per il sostegno ma per l’educazione in generale.
In che senso?
A volte mi chiedo come mai le regole che a scuola sono seguite dai bambini con facilità, nel mondo di tutti i giorni, vengono completamente ignorate e non solo dai bambini ma anche dagli adulti.
Regole di che tipo? Ci fa qualche esempio?
Non si rispettano le file. Si parla tutti insiemi senza rispettare i tempi di ascolto… La scuola dovrebbe interrogarsi con molta attenzione di fronte a questo fallimento. I nostri studi ci insegna che per trasmettere un concetto l’insegnante dovrebbe organizzare un metodo, applicarlo nella pratica e verificare i risultati. Se non ottengo il risultato che mi ero prefissato devo analizzare queste tre fasi e capire dov’è l’errore.
Per migliorare la società occorre quindi migliorare la scuola?
Diciamo che occorre molta attenzione e verifica continuai. Certe regole se davvero capite da bambino si fissano nella mente in modo automatico, questo vale per i concetti legati alla grammatica come al rispetto delle regole.
E quindi?
Quando spiego o do un’indicazione e il bambino si distrae, non basta dire: “Stai attento”! Non basta minacciare “Devi stare attento” Dovrò trovare un modo per coinvolgere il soggetto e portarlo all’attenzione. A volte può essere utile costruire uno spazio più piccolo e protetto, simile allo spazio dell’aula per catturare la sua attenzione.
Chi salta la fila sul bus non ha capito l’importanza del rispetto da bambino?
Per semplificare, si, potremmo dire così. Se per qualche motivo il soggetto non ha compreso del tutto le regole del buon vivere sociale. Farà molta fatica da adulto a rispettare la fila o ascoltare gli altri...
La tecnologia può aiutare come?
La tecnologia da sola può fare molto poco. Va introdotta per gradi e deve seguire l’esperienza diretta. In alcuni contesti può dare risultati straordinari.
Un esempio?
Se porto i bambini in giardino a scoprire gli insetti posso poi approfondire questa esperienza diretta osservando gli stessi insetti con ingrandimenti realizzati da strumenti tecnologici.
Uno strumento particolarmente utile?
Google for education è un buon supporto.
Ci sono risorse sufficienti per fare sostegno?
Le risorse è chiaro, non sono infinite ma ci sono. Vanno impiegate bene con grande competenza e responsabilità. E questo non sempre avviene. Dipende dal plesso, dalla scuola ma sopratutto dalle persone.
Che differenze ci sono tra le scuole d’infanzia e le primarie?
Intanto è bene sottolineare che all’infanzia ci sono molti meno bambini certificati.
Come mai?
Perché è più difficile riconoscere patologie nei bambini tanto piccoli. Perché si tende a certificare più avanti ma questo dipende sempre dal tipo di problema che il bambino o la bambina manifestano.
So che per certificare l’insegnante, la scuola, le istituzioni in stretto raccordo con la famiglia, devono intraprendere un percorso in cui ci si relaziona con i genitori e con figure professionali competenti. I tempi non sono brevi, per correttezza debbo dire che non lo sono per tanti validi motivi legati alla complessità che a volte la definizione di uno specifico disturbo comporta. Le dinamiche che portano all’attivazione di un percorso di certificazione sono tanto delicate e complesse ed entro queste si attivano così tante istanze legate all’emotività, alla conoscenza dei bisogni educativi complessi di un minore che spesso la relazione all’interno della rete dei servizi si mantiene in equilibrio su un filo molto delicato.