La salute di ferro delle madri libere professioniste

 


Lavorare riposa 

Con questo articolo mi attirerò gli strali di una larghissima fetta di popolazione e anche qualche critica sulla sempre troppo invocata “guerra tra poveri”, ma, in quanto libera professionista, madre di due figli, ritengo, invece, assolutamente doveroso porre l’attenzione sul tema che si basa sul vecchio e insuperato assioma: libero professionista/disponibilità di tempi e denari.

Ebbene, la ratio di tutta la normativa che disciplina la tutela della lavoratrice madre paga, in generale, lo scotto di essere unidirezionale: le tutele, poche o pochissime che siano, sono tutte volte a compensare la perdita economica dovuta all’impossibilità di rendere la prestazione lavorativa, almeno nel periodo di astensione obbligatoria.

In buona sostanza, il sostegno è meramente economico.

Ma non è delle carenze del welfare in tema di maternità che vorrei parlare oggi, quanto del diritto alla salute della lavoratrice madre in senso stretto.

Come sappiamo, tanto le libere professioniste (dottoresse, avvocate, commercialiste e professioniste, comunque iscritte ad albi professionali e ad una cassa di previdenza), quanto le lavoratrici dipendenti e autonome (artigiane, commercianti, coltivatrici dirette, iscritte alla gestione separata INPS), devono astenersi obbligatoriamente dal lavoro in un periodo che va dai due o un mese prima del parto a tre o quattro mesi dopo.

Tuttavia, nella più stringente ottica della tutela della salute, solo per le lavoratrici dipendenti e autonome è previsto un ulteriore istituto che si chiama “interdizione anticipata gravidanza”, altrimenti detta gravidanza a rischio, che si attiva nel momento in cui la lavoratrice sia sottoposta ad uno dei rischi specificati nel DVR aziendale oppure dagli allegati al D.Lgs. n. 151/2001, Testo Unico sulla maternità.

In questi casi, se non è possibile adibire la lavoratrice ad altre mansioni, l’Ispettorato del Lavoro autorizza l’interdizione anticipata dal lavoro, al fine di tutelare la salute della futura madre e del bambino.

A seconda del comparto lavorativo di riferimento la quantità dei rischi indicati è assai vasta: si considerano pregiudizievoli per la salute della gestante le attività faticose, pericolose e insalubri che comportano l’esposizione ad agenti fisici, chimici o biologici, la manovalanza pesante, la movimentazione di carichi, la guida di automezzi, le posture incongrue, ma anche il contatto con il pubblico.

Quando ne sussistano i presupposti, queste donne hanno il diritto di astenersi dal rendere la prestazione lavorativa, percependo l’indennità di maternità nella misura prevista dalle rispettive normative di riferimento (80% della retribuzione oppure l’80% dei 5/12 del fatturato realizzato nei due anni precedenti alla interdizione).

Per le libere professioniste, però, questo istituto non esiste.

Le casse di previdenza di riferimento prevedono esclusivamente il pagamento della indennità di maternità prevista per il periodo di astensione obbligatoria.

Qualsiasi erogazione ulteriore la si ottiene dalla assicurazione privata, eventualmente stipulata a suon di quattrini, preferibilmente entro una età in cui, alla maternità, sono in poche a potersi permettere di pensare, ma tant’è.

Come anticipavo, alla base di questa importante disparità di trattamento (solo una lavoratrice autonoma o libera professionista può sapere quanto sia difficile curare la propria persona in gravidanza senza preoccupazioni lavorative o economiche!) c’è l’abituale concezione che la libera professionista guadagni più di una lavoratrice dipendente ed abbia ampia disponibilità di orari; privilegi che, in qualche modo, vengono compensati con il risparmio accordato alla collettività sulle provvidenze relative alla sua maternità.

Orbene, passando faticosamente oltre tutte le difficoltà della professione - i rischi ad essa connessi, le responsabilità enormi del professionista, la discontinuità dei guadagni, etc. – potremmo provare a considerare questo discorso valido e condivisibile per le professioniste che sono iscritte ad un albo professionale ed esercitano effettivamente la professione.

Ma cosa dire di tutte quelle donne che espletano una prestazione lavorativa da dipendente a tutti gli effetti, talvolta sottoposte ad orari lavorativi rigidissimi ed estenuanti, ma non sono regolarmente assunte, ed emettono fattura in qualità di professioniste?

Ricercatrici di centri di ricerca privati, architette collaboratrici di studi professionali, igieniste dentali, infermiere in ospedali privati o accreditati, ottiche e optometriste etc…

Bè, siamo evidentemente di fronte a creature favorite dalla sorte e superdotate: non hanno anziani da accudire, ne' figli da crescere, ma, soprattutto, hanno una salute di ferro e non si ammalano mai, né dentro, né fuori dal lavoro.

Un vero e redditizio investimento.

 
Caterina Burgisano