lisasolonynko |
A distanza un mese e mezzo dal referendum consultivo che si è tenuto
a Bologna domenica 26 maggio, dove i cittadini sono stati chiamati ad
esprimersi sull’abolizione del finanziamento erogato dal Comune
alle scuole
dell’infanzia paritarie gestite da enti privati, si può riprendere una riflessione sul quel tema di politica della scuola, fuori dagli accesi dibattiti della campagna elettorale. Ricordiamo che al centro della questione referendaria c’era un milione di euro circa, il 2,8% di tutto il bilancio che Bologna investe sulle scuole dell’infanzia, dove il 61% dei bambini da 3 a 6 anni frequenta scuole comunali, il 21% paritarie private, il 18% statali. Bologna è la città che in Italia investe di più sulla scuola dell’infanzia: oltre 36 milioni di euro. Il referendum che, come è noto, è stato vinto (59% contro 41%) dal Comitato Articolo 33 che lo ha promosso e ha portato al voto meno di un terzo dei cittadini, ha avuto un grande merito: quello di riaccendere l’attenzione e il dibattito sulla scuola, in particolare quella dell’infanzia, che da molto tempo era spento in una città che è (stata) un punto di riferimento nelle politiche e nella qualità dei servizi educativi. Ce n’era davvero bisogno e c’è da sperare, comunque uno la pensi, che questa attenzione non si spenga sull’esito del referendum.
dell’infanzia paritarie gestite da enti privati, si può riprendere una riflessione sul quel tema di politica della scuola, fuori dagli accesi dibattiti della campagna elettorale. Ricordiamo che al centro della questione referendaria c’era un milione di euro circa, il 2,8% di tutto il bilancio che Bologna investe sulle scuole dell’infanzia, dove il 61% dei bambini da 3 a 6 anni frequenta scuole comunali, il 21% paritarie private, il 18% statali. Bologna è la città che in Italia investe di più sulla scuola dell’infanzia: oltre 36 milioni di euro. Il referendum che, come è noto, è stato vinto (59% contro 41%) dal Comitato Articolo 33 che lo ha promosso e ha portato al voto meno di un terzo dei cittadini, ha avuto un grande merito: quello di riaccendere l’attenzione e il dibattito sulla scuola, in particolare quella dell’infanzia, che da molto tempo era spento in una città che è (stata) un punto di riferimento nelle politiche e nella qualità dei servizi educativi. Ce n’era davvero bisogno e c’è da sperare, comunque uno la pensi, che questa attenzione non si spenga sull’esito del referendum.
La questione che rimane sul tavolo, e che va al di là delle mura di
Bologna, è la legittimità che scuole dell’infanzia gestite da
enti privati e riconosciute come paritarie possano ricevere
finanziamenti pubblici. Ciò avviene in ragione della legge 62/2000 (Norme per la parità scolastica e disposizioni sul diritto allo
studio e all'istruzione), cosiddetta “Legge Berlinguer”, che
afferma che «Il sistema nazionale di istruzione è costituito dalle
scuole statali e dalle scuole paritarie private e degli enti locali».
La legge specifica in maniera dettagliata cosa si intenda per
“paritaria” e a quali criteri debba ottemperare una scuola per
ottenere tale riconoscimento e accedere così ai finanziamenti
pubblici. La domanda è: sostenere con soldi pubblici le scuole
paritarie contraddice l’articolo 33 della Costituzione dove afferma
«Enti e privati hanno il diritto di istituire
scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato»?
Sì, secondo i promotori del referendum, prendendo alla lettera quel
dettato; No secondo i comitati e i gruppi che si sono opposti
dicendo: a) se così fosse, allora la “legge Berlinguer” dovrebbe
essere dichiarata incostituzionale; b) l’affermazione dell’art.33
parla di scuole che vengono “istituite” senza oneri per lo stato,
cioè se un ente o una fondazione vuole istituire una scuola
ha diritto a farlo ma non chiedendo soldi allo stato (dove
“istituire” significa fondare, costruire…); c) esiste l’art.118della Costituzione, che definisce i termini della “sussidiarietà”
e dove si legge che «Stato, Regioni, Città metropolitane, Province
e Comuni favoriscono l'autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e
associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale,
sulla base del principio di sussidiarietà», non v’è dubbio che
la scuola sia questione di interesse generale e dunque in base al
principio costituzionale della sussidiarietà vanno sostenuti i
soggetti sociali che la promuovono, avendo il riconoscimento di
scuole paritarie.
Ciò che si afferma con la legge 62/2000 è che “pubblico” non è
sinonimo di “statale” (le stesse scuole dell’infanzia comunali
sono paritarie). Dunque: dove sta il problema? Il problema, forse,
sta nel fatto che le scuole dell’infanzia paritarie sono almeno
all’80% di ispirazione cattolica, come tali contraddicono, secondo
i referendari, il principio della laicità della scuola e dunque non
dovrebbero accedere a finanziamenti pubblici, ma sostenersi
unicamente con i propri fondi e le rette pagate dalle famiglie.
Domanda: se le scuole paritarie fossero in larga maggioranza gestite
da altri enti come cooperative, fondazioni, associazioni culturali
non-cattoliche ecc. verrebbe ugualmente sollevato il problema? Sarei
portato, sulla base di una “legittima suspicione” a rispondere
no. La ragione è che la scuola e l’educazione sono un fronte su
cui storicamente nel nostro Paese la contrapposizione fra laici e
cattolici (detto un po’ grossolanamente) è sempre stata molto
forte; sulle leggi che hanno riguardato la scuola sono caduti vari
governi.
Affermare il primato della laicità della scuola pubblica come
sinonimo di libertà, contro le scuole paritarie che sarebbero invece
vincolate a un “progetto pedagogico” è una colossale sciocchezza
(eppure c’è chi lo ha sostenuto nella campagna referendaria).
L’idea che le scuole dell’infanzia statali (e comunali) non
abbiano un progetto pedagogico dovrebbe preoccupare tutti. Una scuola
dell’infanzia di ispirazione cattolica, una che segue la pedagogia
steineriana (che ha una sua visione del mondo), un’altra orientata
in senso montessoriano, contraddicono i principi della Costituzione
che riguardano i valori di fondo della nostra comunità civile e gli
Orientamenti educativi che riguardano l’essere scuola pubblica?
Il principio della laicità, nella scuola statale, implica che, come
è scritto nella Costituzione, “L’insegnamento è libero”, nel
rispetto delle normative che regolano l’istituzione; cioè la
scuola statale non è tenuta a professare un modello pedagogico (e a
pretenderlo dai suoi insegnanti), ma si attiene agli
orientamenti/programmi che lo stato le assegna e che rappresentano il
livello massimo della condivisione sul piano della politica educativa
della nostra repubblica. Tale contesto garantisce al singolo
insegnante la libertà del suo insegnamento. Nessun genitore ha
diritto di chiedere all’insegnante di suo figlio nella scuola
pubblica se è ateo o credente, liberale o marxista, né gli può
chiedere di praticare un metodo pedagogico piuttosto che un altro. La
libertà di insegnamento di un maestra ha un limite invalicabile: non
può diventare indottrinamento ideologico o confessionale di
qualsivoglia specie.
La laicità non è neutralità e l’educazione non è mai neutrale,
sia perché non lo è la cultura che si trasmette attraverso
l’educazione, sia perché un insegnante insegna prima di tutto se
stesso: è la sua onestà intellettuale che deve garantire il
rispetto dei valori della costituzione e dei principi che ne derivano
nella scuola. Francamente finora non mi è capitato di vedere bambini
di 6 anni uscire da una scuola dell’infanzia cattolica con la testa
formattata a Santa Romana Chiesa; dichiarare un indirizzo pedagogico
sulla base di un orizzonte di senso o di una metodologia non
significa plagiare le menti dei bambini o inibire la loro libertà.
Ci sono scuole paritarie che esprimono una buona qualità didattica e
altre meno, come succede nelle scuole statali e comunali; la qualità
didattica non è ascrivibile a priori alle scuole pubbliche o a
quelle paritarie. Ciò che veramente è in gioco non è la supposta
“cornice ideologica”, ma la competenza pedagogica
dell’insegnante, la sua vivacità culturale, la sua expertise
didattica e , lo ripeto, la sua “onestà intellettuale”, che si
potrebbe anche tradurre in deontologia pedagogica.
Il criterio della qualità didattica di una scuola e della
professionalità dei suoi insegnanti e dirigenti, dell’impegno e
dei risultati ottenuti su progetti educativi difficili, dovrebbero
essere gli indicatori in base ai quali assegnare fondi pubblici alle
scuole, ma bisognerebbe convenire sulla necessità di criteri di
valutazione della professionalità degli insegnanti e della qualità
didattica di ogni scuola. Finora si è preferito dire che sono tutti
uguali, anche se tutti sappiamo che non è così. La scuola finge di
non accorgersi che, seppure in maniera del tutto informale, al
valutazione avviene, attraverso passaparola e gossip: i genitori che
devono iscrivere il bambino alla scuola dell’infanzia (come alla
primaria e così via salendo di grado) raccolgono informazioni
perlopiù da altri genitori su quale sia migliore, girano voci sulle
qualità di singoli insegnanti, sulla scuola dove c’è più
impegno, dove si fanno esperienze più innovative ecc. Per non
parlare delle “perplessità” che riguardano la presenza di
bambini stranieri, handicappati…I genitori fanno la loro
“valutazione” e così si scopre che ci sono scuole la cui
“valùta” pedagogica e didattica è particolarmente richiesta,
mentre altre subiscono una “svalutazione”.
La parola “competizione” non è molto amata nel mondo della
scuola, eppure è una bella parola, viene dal latino cum-petere,
che vuol dire chiedere insieme, condividere qualcosa. Due giocatori o
due squadre sono in competizione perché, innanzi tutto, condividono
il gioco, le regole, il campo. E’ esattamente ciò che i bambini
fanno quando decidono di organizzare tra loro un gioco. Nel nostro
caso non si tratta di vincere o perdere, ma del confronto aperto su
diversi modi di fare scuola e sugli esiti che si ottengono, per un
obbiettivo comune: contribuire tutti, ognuno con la propria
specificità, al miglioramento dell’educazione. La legge sul
sistema integrato va in questa direzione.
Il sistema pubblico integrato delle scuole è quello che garantisce
la laicità della scuola nel suo insieme: cioè la compresenza di
differenti realtà scolastiche, ferma restando la centralità della
scuola pubblica statale, in cui vi siano anche scuole che esprimono
specifici orientamenti pedagogici e didattici, che si confrontano
alla pari e garantiscono libertà di scelta. Tutte svolgono un
servizio pubblico perché condividono ciò che significa essere e
fare un servizio pubblico. Mi piace usare la metafora della
biodiversità: un ambiente cresce e si sviluppa perché diverse forme
di vita lo abitano e lo condividono e interagiscono fra loro, ognuna
con la propria specificità. Le monocolture uccidono l’ambiente.
Scuole con identità diverse possono far crescere la qualità
educativa della società che abitano e di cui condividono il terreno,
l’aria, l’acqua.
Strana storia questa delle scuole “private”: tutti riconoscono
che la scuola di Barbiana è stata un modello di scuola democratica
ed inclusiva. Lettera a una professoressa, il libro-manifesto
uscito da quella scuola, è stato il più feroce e rigoroso atto
d’accusa alla scuola pubblica. Barbiana era una scuola parrocchiale
gestita da un prete-maestro che si chiamava don Lorenzo Milani; i
suoi alunni erano tutti bambini bocciati nella scuola statale.
Svolgeva un servizio pubblico quella scuola? Io credo di sì, e se
oggi ci fosse sarebbe il caso di finanziarla.
Roberto Farné vicedirettore del dipartimento di Scienze per la Qualità della
Vita, Università di Bologna.