Cecile Kyenge: l'infanzia e welfare


Cecile kyenge













Cecile Kyenge non ha bisogno di molte presentazioni. Ministro dell'integrazione durante il Governo Letta è da sempre impegnata sui temi di welfare e integrazione. Impegnata in modo attivo e pratico, ha lavorato per diverse associazioni ed enti. Le abbiamo rivolto 4 domande a proposito d'infanzia  e politiche educative.


UE in più documenti ha indicato la necessità di favorire l'accesso ai servizi educativi alla prima infanzia. (nel trattato di Barcellona e la comunicazione della commissione europea 66). Il nostro paese dopo un investimento straordinario di circa 1 MLD ha raggiunto il 17%, UE raccomanda una copertura almeno pari al 33% entro il 2010. La crisi ha inasprito la situazione già difficile ed oggi siamo di fronte alla contrazione dei servizi. Lo dimostrano i dati istat (una battuta d'arresto dal 2004 ad oggi) e il report di BoNidi, che identifica come nel solo 2013 le chiusure e la diminuzione di qualità, siano in forte crescita in molti comuni. Gli obbiettivi preposti sono ancora perseguibili? Se si come? Se no, quali altre strategie sono necessarie per prime? 

Prima di entrare nel merito dei servizi all’infanzia vorrei rimarcare l’importanza del sistema di welfare in generale. Per favorire la ripresa della nostra economia e il benessere dei cittadini italiani ed europei, è fondamentale la creazione di un nuovo sistema sociale in grado di supportare efficacemente le famiglie nella gestione dei propri bisogni. Si tratta quindi di andare in modo spedito verso un welfare equo ed efficiente, che possa mettere le persone, soprattutto le donne, in condizione di conciliare adeguatamente le esigenze lavorative con quelle della vita personale e familiare. In questa ottica è necessario allargare la gamma di offerta di servizi per bambini, garantendo qualità e flessibilità, e allo stesso tempo rafforzare e ampliare il diritto al congedo parentale e le opportunità per orari di lavoro flessibili, applicando e migliorando le direttive europee esistenti.
I nidi e le scuole d'infanzia sono servizi fondamentali sia per le famiglie, e in particolare per le madri e per i bambini.
È decisivo poter continuare a garantire servizi di qualità nelle regioni in cui ci sono e avviarli rapidamente nelle zone che ancora ne sono sprovviste. Grazie ai servizi per l’infanzia, le donne hanno la possibilità di andare a lavorare, e per le famiglie straniere c’è anche un fondamentale fattore di integrazione. Spesso è attraverso i figli che le madri e le famiglie straniere cominciano ad allacciare contatti più stretti e amicizie con la comunità in cui vivono. Per i bambini nati da genitori stranieri le scuole d’infanzia o i nidi sono il luogo in cui comincia l’integrazione e a volte anche l’apprendimento della lingua. Anche in una chiave d’integrazione, pertanto, è fondamentale garantire questi servizi. Bisogna cercare di farlo nonostante gli stretti vincoli di bilancio cui sono sottoposti gli enti locali, possibilmente avviando una strategia a livello nazionale per ridurre le differenze che esistono tra le diverse aree del nostro paese. 

L'Italia si posiziona agli ultimi posti per natalità e per diffusione dell'occupazione femminile. Le donne italiane fanno pochi figli e lavorano poco. I servizi educativi sono un passo importante per la parità di genere, lo dimostra il fatto che le regioni in cui ci sono più servizi (E-R) c'è maggiore occupazione, vicina alle percentuali europee. Quali altre strategie si dovrebbero perseguire per incentivare l'occupazione femminile e favorire la maternità?

Le difficoltà a entrare e rimanere nel mercato del lavoro si acuiscono quando il carico di lavoro di cura (per figli e anziani) si fa elevato: in Italia, solo 4 madri su 10 riprendono a lavorare dopo la gravidanza. Per questo, come già precisavo, sono fondamentali politiche che puntino alla creazione di asili nido, all’attuazione di opportunità di cura per disabili e non autosufficienti, aduna maggiore flessibilità nell’organizzazione del tempo di lavoro. Ma occorre anche che il lavoro di cura e domestico sia meglio distribuito fra donne e uomini. In Italia, nonostante le lotte, le conquiste e le aperture, nelle coppie con figli, questi impegni ricadono sulle donne per il 72,1%. Infine credo sia importante, per non disincentivare l’occupazione femminile, uno dei punti che ho messo come qualificanti nel mio programma per l’Europa, cioè combattere il “gender pay gap”, la differenza di retribuzione tra uomini e donne. Bisogna sancire il principio “uguale salario per uguale lavoro”. Altrimenti la discriminazione si ripercuote sulle pensioni, e disincentiva le donne a rientrare al lavoro, a volte addirittura a cercarlo. Questo nell’ambito di un programma che rafforzi il divieto di discriminazione delle donne in tutti gli ambiti, e che metta al bando in ogni ambito della vita delle persone ogni discriminazione fondata sul genere, l’origine etnica o sociale, la lingua, la religione, le convinzioni personali, le opinioni politiche, l’appartenenza a una minoranza nazionale, il patrimonio, la nascita, la disabilità, l’età, l’orientamento sessuale.

L'integrazione è un tema complesso. Partire dall'infanzia per tenere insieme le diverse usanze, lingue, religioni è uno dei modi più semplici e meno dispendiosi, ciò nonostante le scuole dell'infanzia in Italia non contemplano ore di religione diverse da quella cattolica. Le insegnati di tale materia sono direttamente scelte dalla chiesa cattolica e nonostante siano previste ore alternative, sono pochissime le scuole che le offrono effettivamente. E' una questione di secondo piano?

L’insegnamento della religione cattolica nelle scuole è disciplinato dagli accordi tra lo Stato e la Chiesa cattolica, accordi cui rimanda anche l’articolo 7 della Costituzione. Subito dopo, l’articolo 8 sancisce che “tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge”. Lo Stato italiano è laico e oggi la società italiana sta diventando sempre più multiculturale. Sicuramente il tema dell’insegnamento della religione o delle religioni non è di secondo piano, va affrontato in un’ottica laica, nel rispetto delle diverse sensibilità, della storia del nostro paese e dei cambiamenti della società.

Pubblico e privato. I servizi alla persona gestiti dagli Enti sono regolati dai limiti del patto di stabilità che non consentono di spendere o di assumere il personale a gestione diretta. Queste difficoltà hanno incentivato una massiccia esternalizzazione. I servizi esternalizzati, con tutte le dovute differenze del caso, tra privato e privato, sono peggiorative rispetto alla qualità offerta dal pubblico. I motivi sono molteplici, tra le più vistose ci sono le questioni contrattuali. I privati costano meno perché pagano meno il personale e il personale meno incentivato lavora peggio, ha meno ore di formazione, meno vacanze, meno tutele ecc ecc Oltre a ciò ad oggi manca uno studio serio sulle differenziazioni di costi di gestione tra i due modelli. Gli altri paesi membri hanno spesso svincolato i servizi diretti alla persona dai limiti che rendono il servizio pubblico semplicemente impossibilitato alla gestione. Come uscire da questa situazione?

In molti luoghi, per esempio nel modenese, dove vivo, negli ultimi anni le aperture di nuovi servizi sono state possibili grazie al cosiddetto “welfare mix”, la collaborazione tra gli enti locali e soggetti privati, dalle cooperative che lei cita alle aziende del territorio che sono state incentivate ad aprire asili aziendali in convenzione con i Comuni. Naturalmente è fondamentale che il pubblico continui a mantenere il proprio ruolo di vigilanza e garanzia della qualità dei servizi. Il privato non è un male in sé, ma è fondamentale che sia l’interesse pubblico la guida delle scelte politiche. Significa garantire sia la qualità del servizio per gli utenti, sia un trattamento dignitoso per i lavoratori e le lavoratrici.
Quindi è indispensabile che il pubblico mantenga un ruolo di vigilanza attiva e garanzia sui servizi. In attesa che il rilancio dell’economia ci consenta progressivamente di ridurre il debito pubblico, ridurre o eliminare i vincoli alla spesa per gli enti locali in modo da poter poi utilizzare l’investimento sul welfare come ulteriore volano per la crescita dell’economia. Perché non va dimenticato che il welfare, oltre a consentire alle persone, e alle donne in particolare, di lavorare, è anche esso stesso una fonte di occupazione, e in particolare per le donne, visto che sono donne molte delle lavoratrici dei servizi per l’infanzia e per la cura della persona.