Valerio Varesi |
Da genitore a genitore. “Sono nato da
genitori emiliani di origini contadine” così si presenta Valerio Varesi giornalista di Repubblica e scrittore. Gentilmente ci ha
concesso un'intervista su un tema, forse insolito per uno scrittore e
delicato per chiunque: l'infanzia. Con lui continuiamo il nostro
vagabondare da un'infanzia all'altra, tra personaggi noti e meno
noti, tra un territorio e l'altro d'Italia e sopratutto tra una
generazione e l'altra.
Iniziamo con dare le
coordinate Valerio Varesi è nato nel 1959 a Torino. E ora torniamo
alla sua narrazione. “Dopo la guerra non c'era molto lavoro in
campagna, così quando un imprenditore locale, si trasferì a Torino
per avviare una segheria, la mia famiglia lo seguì. Mio padre
divenne artigiano, faceva sopratutto pavimenti in legno, mentre mia
madre lavorava come “serva”, un tempo si diceva così, presso la
casa di una una ballerina del Regio. La mamma era scandalizzata dalla
vita della ballerina, sopratutto perché copriva di attenzioni un
piccolo cane, con cui dormiva anche. Per lei donna di campagna, era
assolutamente inammissibile dormire con un animale...Spesso tornava a
casa con dei biscotti che il cane rifiutava e mangiavamo io e mia
sorella.”
Eravate solo voi
in famiglia?
Si, io e mia
sorella. Lei era più grande di sette anni.
Ad un certo punto
la sua famiglia torna verso Parma. Perché?
Perché mio padre
ebbe un grave incidente sul lavoro. Non si capirono mai le esatte
dinamiche, ma fu grave. Per due anni non poté lavorare, così
tornammo alle terre di origine dove avevamo una rete famigliare che
poteva aiutarci. Mia madre comunque continuò a lavorare, questa
volta presso la signora Ferrante, una signora di origini meridionale,
molto “per bene”. Fu sempre gentile con noi.
Cosa ricorda di
quel periodo?
Spesso accompagnavo
mia madre al lavoro. Dovevo stare fermo e zitto, così osservavo
tutto...la casa era grande, piena di ninnoli, c'era anche un
pianoforte e tutto scricchiolava, per via dei pavimenti che erano in
legno. Quella casa per me era un'apparizione, una specie di Eldorado.
Ricordo poi che
alternavamo la città, alla campagna, dove stavo con i nonni materni.
In inverno ero più spesso in città con i nonni paterni. Con il
nonno facevo lunghe passeggiate sul torrente Baganza. Ricordo le sue
chiacchierate e la sua grande ironia. Era bello stare con lui.
Che giochi aveva?
Di giocattoli miei,
ne avevo pochi. Giocavo con gli scarti di legno che trovavo nella
falegnameria di mio zio. Ci costruivo palazzi e vie e li componevo in
città. Erano i mie “lego”. In generale direi che giocavo con le
cose che trovavo: con le sedie senza pioli... Molto tempo stavo in
strada con il pallone e tanti amici, nei lunghi pomeriggi del dopo
scuola. Ho giocato con giocattoli come macchinine, soldatini e cose
così quando ho conosciuto Antonio, un caro amico, che frequento
ancora. Lui era figlio unico e benestante. In casa su c'erano giochi
che divideva volentieri con me.
Quando ha
iniziato la scuola?
A sei anni.
Cosa ricorda?
Le classi erano
piene di bambini, trenta, trentacinque alunni. Se non riuscivi a
stare al passo con le lezioni finivi nelle classi di recupero. Era un
vero guaio finirci, una vergogna. Personalmente non ho mai avuto
problemi a scuola, e devo dire che è stato anche grazie a mia
sorella. Fin da ragazzina aveva la passione per l'insegnamento e
infatti è diventata insegnante. Le prime prove le fece su di me! Mi
faceva fare i compiti e sempre qualcosa in più, soprattutto
in grammatica e in letteratura. Quando si trasferì a Milano per
seguire il marito, ero in prima media. Per me fu un
distacco sconcertante.
Oggi è padre?
Si, ho
un figlio che ho avuto a 35 anni.
Com'è andata
questa esperienza?
Non avevo
particolare istinto paterno. Sono sempre stato individualista, ho
sempre dovuto badare a me fin da ragazzo... quando sono diventato
padre c'è stata una vera trasformazione. All'inizio è stato
sconvolgente. Avevo paura di tante cose... tutte quelle poppate
mattina e sera... tutti quei parenti che andavano e venivano...i
primi tempi pensavo di impazzire.
Trova differenze
nei modelli educativi che ha ricevuto e in quelli che ha dato?
Si, certo. Un tempo
l'educazione era più ruvida e più semplice. Mia nonna mi raccontava
che lasciava a casa il bimbo per andare a coltivare e se il bambino
piangeva, va beh, il pianto avrebbe sviluppato i polmoni...ora è
impensabile un approccio di questo tipo.
Era un modo
migliore di educare?
Per certi aspetti
sì. C'erano dei limiti precisi, c'era
maggiore disciplina. C'erano figure di riferimento sicure...Credo che
siano troppo pochi i no che diciamo ai
bambini. Un bambini senza limiti è un adulto che al primo no, magari
della moglie che lo lascia, reagisce con un omicidio. Estremizzo ma
non credo sia sempre lontano dal reale purtroppo. In generale vedo
una degenerazione fisica oltre che psichica.
In che senso
fisica?
Prima giocavamo in
strada, andavamo a scuola a piedi, facevamo le scale...ora i bimbi
girano in passeggino finché non hanno le ginocchia in bocca, si va
scuola in auto; così soffrono di obesità e
non sanno più muoversi... in generale abbiamo perso il
rapporto con la natura.
Non c'è nulla di
positivo nell'attuale modo di crescere i bambini?
Di positivo ci sono
i giovani che sono sempre entusiasmanti. Quando mi capita di entrare
nelle scuole per presentare i miei libri, ho di fronte molti studenti
davvero attenti che hanno molta voglia di apprendere e imparare.
Hanno bisogno di grande cura, come fossero rari fiori di serra.