Perché non è più un asilo nido ma un nido d'infanzia? Parola al professor Parente



 
 

Parola a... Oggi incontriamo il professor Maurizio Parente docente all’università di Pisa, che ha insegnato anche all’università di Bologna e a Urbino. Ha collaborato nei Dipartimento di Scienze della Formazione di Bologna e Firenze e all’Istituto degli Innocenti. Oltre all’insegnamento accademico Parente si occupa anche di formare educatori e maestri con corsi di specializzazione, tenuti dalla Società Italiana di Psicologia e Pedagogia (SIPP).

Perché oggi i servizi educativi zerotre li chiamiamo “nidi d’infanzia” e non più “asili nido”?

Perché, a seguito della legge 107/2015 e del successivo D.Lgs. 65/2017 è cambiata la nomenclatura. A questo cambiamento ha contribuito anche un approfondito lavoro di ricerca condotto dall’Istituto degli Innocenti di Firenze nel 2007 per conto del Dipartimento delle Politiche della Famiglia.

Che tipo di ricerca?

Una ricerca davvero molto complessa e necessaria. Per capire l’entità dell’impegno faccio presente solo un dato: esistevano ben ottantatre differenti nomenclature per indicare il nido e i servizi integrativi. Era diventato davvero necessario porre ordine all’interno di questo panorama talvolta piuttosto confuso e iniziare un percorso in grado di attribuire ai “servizi educativi per la prima infanzia” non più un valore meramente assistenzialistico, ma educativo e formativo a tutti gli effetti, come qualsiasi altra istituzione scolastica.

E quindi perché non si chiama più asilo, ma nido d’infanzia?

Possiamo dire che il nido d’infanzia è un’evoluzione dell’asilo nido. È un passaggio del tutto simile a quello avvenuto anni prima per la scuola d’infanzia che ha superato la vecchia nomenclatura di scuola materna. Con il nuovo nome poniamo l’accento sulla centralità del bambino, sulla sua educazione e tralasciamo l’aspetto di “custodia”. Sono tante le parole che nel tempo e con l’evolversi della pedagogia sono cambiate.

Le parole cambiano ma i servizi cambiano davvero in questa direzione che lei indica?

Le parole sono importanti, dobbiamo imparare a ragionare sulle parole e sceglierle con cura. Ogni parola non deve essere mai utilizzata in modo casuale, ma in relazione al significato che implica e per il loro rimando a filoni di pensiero. L’utilizzo di parole appartenenti al passato, per esempio, può implicare la sopravvivenza, più o meno consapevole, di pratiche educative adultocentriche. L’aspetto più importante è essere consapevoli delle parole che utilizziamo e creare una coerenza tra il dichiarato e l’agito (tra quello che si dice e quello che si fa).

E quindi parole e pensieri “vecchi” corrispondono ad un fare non aggiornato?

Non semplifichiamo troppo, diciamo piuttosto che siamo in fase di sviluppo. Diciamo anche che ci sono professionisti che non aggiornano il linguaggio, ma lavorano bene e altri che usano un linguaggio correttissimo senza capirlo del tutto. Insomma educare è un lavoro molto complesso che dovrebbe sempre tenere insieme il fare con il pensare e quindi il parlare.

Dove mettiamo la parola “cura” in questo passaggio di nomenclatura?

Intanto mi preme precisare che non si tratta solo di nomenclatura, ma anche di passaggi normativi. Come si diceva all’inizio, con l’approvazione della legge 107 e il D.Lgs. 65/17 le cose cambiano anche da un punto di vista normativo. Detto ciò la parola “cura” è centrale perché curare è educare. Non c’è cura senza educazione, e educazione senza cura.

Ci spiega meglio?

La cura è parte integrante dell’educazione: cura e educazione sono modi della relazione interumana, del tutto complementari che implicano l’essere ricettivi nei confronti dell’altro, l’essere capaci di accettarlo e avere la disponibilità a rispondere attivamente ai suoi bisogni, compresi quelli più semplici come, per esempio, la cura del corpo. In quest’ultimo caso mi auguro che la costituzione del sistema integrato 0/6 consenta una maggiore contaminazione tra nido e scuola dell’infanzia.

Perché la scuola d’infanzia?

Se un bambino non ha ancora il controllo sfinterico possono emergere alcune criticità. In casi estremi può accadere che, per cambiare un bambino, si chiamino i genitori. La sempre più scarsa possibilità di compresenza, unita ad una progettazione spaziale spesso obsoleta crea molte difficoltà per le insegnanti che, essendo responsabili della classe, difficilmente possono spostarsi per prendersi cura di un solo bambino. Eppure prendersi cura di un bambino, anche da questo punto di vista, presuppone il mettere in atto azioni educative perché, durante il cambio, il contatto diventa il protagonista della relazione.

Per migliorare la pratica del nido e della scuola e avvicinarla di più alle parole: come si potrebbe fare?

Personalmente credo molto nella formazione, che dovrebbe diventare uno dei punti di forza delle professionalità educative. Un aggiornamento continuo può fare moltissimo.

Una formazione come?

Di qualità ovviamente, così come ci richiede l’UE. È auspicabile una formazione che affondi le proprie radici non nelle pratiche tradizionali della trasmissione frontale dei saperi, ma nel ritrovato protagonismo del personale educativo e insegnante, che potrebbe essere coinvolto in laboratori, scambi, gemellaggi oppure in momenti formativi da sperimentare in sezione con l’affiancamento del formatore stesso. Un aggiornamento continuo e di qualità che riesca a motivare il personale educativo e insegnante, rafforzando le loro competenze teoriche e pratiche in modo da evitare che si cada continuamente nella falsa rete dei famosi “lavoretti”.

Con “lavoretti” cosa intende?

Al nido, nel primo anno di vita, il lavoretto solitamente è rappresentato dall’impronta della mano del piccolo su un qualsiasi supporto e, a seconda della fantasia delle educatrici e del periodo dell’anno, si avranno impronte sulla cornice della foto del primo giorno di nido, sulla pallina per l’albero di Natale, ecc. Alla Scuola dell’infanzia il livello di fantasia cresce in modo esponenziale poiché allo stesso modo crescono le tipologie di materiali e di tecniche utilizzabili. Ma tutti i lavoretti hanno caratteristiche comuni, in primis il fatto di essere per lo più creati dalle educatrici-insegnanti.

Cosa c’è che non va?

Tante cose. Parto da un’idea che –ormai– dovrebbe essere “materia” consolidata nella riflessione di educatrici e insegnanti: la differenza tra prodotto e processo. Il “lavoretto” ha un fine che si espleta nel risultato finale: a fine lavoretto, qualcuno (maestre, genitori) diranno “bravo” al bambino per quello che è il risultato finale. E quel risultato, il bambino al di sotto dei sei anni non solo non lo capisce a pieno, ma lo confonde. IN questo caso il bambino non si è goduto davvero il percorso creativo. Quello che in ogni cosa è di interesse per il bambino è l’esperienza, non il risultato, mentre il lavoretto al nido è un “compito” orientato al risultato finale. Ancora una volta mi sembra di leggere in queste pratiche un pensiero adulto-centrato teso a organizzare azioni poco affini ai processi di sviluppo dei bambini.

A quali azioni fa riferimento?

Per esempio colorare il foglio prestampato senza uscire dal contorno. Far fare i “lavoretti” di Natale a giugno perché altrimenti il bambino ha un “buco” nel quaderno da consegnare a casa… “Fare” per consegnare ai genitori... “Fare” per dimostrare … questa idea di nido e di scuola non è del tutto superata. E purtroppo con tutto questo fare manca il tempo per osservare e pensare.

Perché è importante osservare?

Non è importante, è fondamentale. E a proposito dell’importanza delle parole, osservare è spesso confuso con “guardare”. Ma osservare significa altro.

Cioè, cosa?

Significa mettere in pratica un guardare intenzionale e sistematico il bambino, o i bambini, in certi momenti in cui coscientemente si sospende il giudizio, le emozioni e si descrivono i comportamenti dei bambini in senso Brumeriano.

Come aver tempo di fare tutto se le ore di compresenza sono così poche?

Mi rendo conto che è difficile, ma una soluzione è proprio fare di meno “con”, fare in modo di non essere sempre e comunque coinvolti nelle esperienze dei bambini, ma progettare e organizzare meglio gli spazi di modo che i bambini possano agire in autonomia costruendo le proprie esperienze di conoscenza. In questo modo il personale educativo e insegnante potrà avere più tempo per progettare, osservare, documentare…

A mio modo di vedere i nidi e le scuole d’infanzia dagli anni ‘70 ad oggi hanno fatto passi da gigante nella teoria, ma nei fatti siano peggiorati. Manca lo spirito di sperimentazione, di creatività… Lei cosa ne pensa?

Penso che si stia attraversando un periodo di grande cambiamento in cui il personale educativo e insegnante abbia bisogno di ritrovare la spinta alla sperimentazione, riacquistando quell’idea di ricerca-azione che ha alimentato le esperienze dei primi nidi e delle prime scuole dell’infanzia rendendole le più ammirate nel mondo. Allo stesso tempo ho l’impressione che questa spinta a innovare e sperimentare non manchi solo in questi contesti, ma in tutta la scuola e anche in molta parte dell’Università. La responsabilità però non penso debba essere ricercata nel personale educativo e insegnante, quanto in uno Stato che non investe più nella scuola e non pare nemmeno credere che la scuola possa fare la differenza. Rispetto a tanti paesi del contesto EU siamo molto indietro.

Un’ultima domanda: cosa rimane dell’insegnamento di Franco Frabboni che di recente ci ha lasciati? Lo chiedo a lei che è stato suo allievo e collaboratore all’Università di Bologna?

Ci ha lasciato una grandissima eredità fatta di studi, di libri e relazioni che rappresentano l’ossatura teorica della moderna pedagogia basata sulle esperienze compiute sul campo. A lui ho sempre riconosciuto la capacità di declinare una salda padronanza di riferimenti teorici con l’acuta consapevolezza della storicità dei fenomeni dell’educazione.

Ha sempre combattuto per una scuola aperta, sperimentale, del curruolo e democratica. Queste istanze, a contatto con le problematiche del periodo storico, lo hanno condotto a valorizzare costantemente il ruolo politico-culturale della pedagogia, ponendosi come obiettivo la fattiva promozione di questo modello di scuola aperta e democratica, tesa al progresso civile del Paese. Così, quando il mutamento del clima politico ha posto in discussione questo modello, egli non ha esitato ad affrontare una lunga e difficile battaglia culturale per difendere lo sviluppo democratico della scuola. Nella sua ultima stagione, ha quindi vestito l’abito del polemista, impegnato a criticare duramente gli arretramenti delle politiche scolastiche. Penso si sia sempre battuto per la difesa di una scuola per tutti e rispettosa delle differenze esprimendo chiaramente il proprio pensiero anche quando questo poteva essere in opposizione alle idee politiche di determinati momenti storici. Con lui viene meno un grande pensatore di cui, però, continuiamo ad avere le sue teorie che dovremmo riprendere perché, nonostante gli anni e i tempi siano cambiati, meritano ancora tanta attenzione e studio.

Laura Branca