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Cronaca Bambina Apei (associazione
dei pedagogisti e degli educatori) si prepara al grande evento: il 6
e il 7 aprile a Roma si svolgerà l’assemblea Nazionale e durante
la due giorni saranno davvero tante le voci che si alterneranno al
microfono. Si parlerà di educazione, pedagogia e non solo. Oggi
incontro Gianvincenzo Nicodemo per affrontare un tema tanto
delicato quanto spinoso: il ruolo dell’educatore dentro e fuori la
scuola che tra inciampi politici e giuridici si trova di nuovo in
bilico e tendenzialmente ad essere diviso in due da una parte
Dopo la battaglia
che vi ha portato all’approvazione della legge Iori oggi la figura
professionale dell’educatore ha un suo riconoscimento? Oggi siamo di fronte
a nuove sfide. Il riconoscimento e il ruolo dell’educatore inteso
come educatore in tutti i campi è ancora e nuovamente sotto
minaccia.
Perché? Perché
potenzialmente il 40% circa degli educatori che oggi lavorano nei
servizi sociali o sanitari potrebbero non essere più riconosciuti
nel loro ruolo professionale.
Educatori al
socio sanitario che cosa fanno? Educano creano fanno
percorsi educativi in centri diurni per persone con disabilità
mentali e fisiche, in centri per recuperare le persone
tossicodipendenti…
Da quando gli
educatori lavorano in questi ambiti? Da sempre direi.
Fino a che con un decreto ministeriale, del ‘98, dell’allora
ministro Bindi, non ha stabilito che nell’ambito sociosanitario
dovessero lavorare educatori con una laurea specifica in ambito
medico.
E poi?
Da quel momento un
po’ per volta la nostra professione è scivolata sempre più, come
se fossimo su un piano inclinato…. Ci sono state precluse sempre più
possibilità professionali. Ad esempio non potevamo più partecipare
ai bandi indetti dall’USL, eppure ciò nonostante i servizi
continuavano ad aver bisogno della nostra professionalità.
E quindi? Quindi continuavamo
a lavorarci senza però un reale riconoscimento.
Cioè? Tradotto con
stipendi davvero miseri, potevamo lavorare anche per 600 euro
mensili.E si capisce che senza riconoscimento, i servizi continuavano
e perdere in qualità.
Poi è stata
approvata la “legge Iori” da allora come sono andate le cose? La nostra
professione è stata finalmente riconosciuta dopo vent’anni di
battaglie. Oggi però stiamo subendo nuovi attacchi.
Perché è
una questione di soldi? Credo che si tratti più che altro di una questione sociale.
In che senso
sociale? Chi
si occupa di disagi da un punto di vista psichico o sanitario è più
propenso ad etichettare a e trovare una cura.
E cosa c’è di
sbagliato in questo? Il
fatto è che spesso non si tratta di malattie, ma di disagi, di
difficoltà, di fragilità…. Così invece di vedere la persona
nella sua complessità si individua
un problema e si cerca una soluzione al problema. La
pedagogia ragiona in un altro modo: crea
percorsi ragiona sulle difficoltà e li analizza nel contesto
complessivo. Spesso
anche la scuola fa fatica ad
adeguasi.
Perché la scuola
fa fatica? Perché
è solita lavorare in modo poco pedagogico. Perché
nelle classi
ci sono tanti bambini e
tanti ragazzi a fronte di un
solo insegnante. Perché
la scuola ragiona uguale in
contesti profondamente diversi: la
Sicilia è diversa dalla
Lombardia, la città dalla
provincia...
Quali le
soluzioni possibili? Secondo
noi la risposta dovrebbe essere pedagogica e non medica o
psicologica. Così non faremmo altro che trovare sempre nuovi
malesseri, sempre diverse etichette e sempre più cure che però
dimenticano la persona.