Una scena vera

 


Crescere in città

Bologna, esco di casa dopo 12 giorni di quarantena prima e isolamento poi, per fare il tampone di uscita. Mi sento leggera, cammino guardandomi attorno con occhi freschi, osservo un crocchio di studenti del liceo allegri che hanno saltato la prima ora, poi ecco gli ultimi genitori trafelati che accompagnano i figli alla scuola elementare, i negozi che aprono, i tavolini con giornale e caffè, il bus alla fermata, e, dopo una breve camminata, arrivo alla farmacia.

Non c'è tanta fila, aspetto il mio turno serena, poi attendo fuori i famosi 15 minuti che mi separano dalla libertà.

E li vedo arrivare: giovane famiglia composta da mamma, papà, bambinetto di circa 4 anni e sorellina ancora in passeggino.

I bambini devono fare il tampone. Il primo è il "grande", tocca a lui. Ormai siamo tutti abituati, tamponarsi fa parte delle nostre vite. Per Marco (così si chiama il bimbo) non è così. Lui non si rassegna, non capisce, non ci sta. E lo dimostra come sa fare lui, come sanno fare tutti i bambini del mondo: urla, piange, grida. E usa parole dirette come coltellate: "Non lo voglio fare, ti prego, ti prego, voglio tornare a casa" e la mamma lo tiene in braccio, gli parla dolcemente, poi più severamente, poi lo sgrida; e poi interviene la giovanissima farmacista addetta ai tamponi con voce gentile e sorriso benevolo: "Ti faccio il solletico, non senti nulla, te lo prometto, così puoi tornare a scuola, devi solo stare fermo in braccio alla mamma". Non serve a niente, a nulla valgono sgridate, promesse e minacce. Marco quel tampone nel naso non lo vuole. Marco sta benissimo e non capisce perché per tornare a scuola con gli amici deve farsi infilare qualcosa su su nel naso. Marco magari ha una soglia del dolore bassa, o ha avuto brutte esperienze con tamponi precedenti o è un bambino particolarmente sensibile. 

Marco più semplicemente è un bambino e come il bambino della favola dei vestiti dell'imperatore grida: "Il re è nudo!" e ci fa aprire gli occhi su questa macchina infernale di tamponi, quarantene, isolamento e dad che per i bambini non ha alcun senso. Marco, se si è ammalato di covid, ha avuto (forse) qualche linea di febbre e un po' di moccolo al naso, come ha già avuto altre 100 volte senza bisogno di fare il tampone. Marco ha genitori, insegnanti, vicini di casa e nonni tutti vaccinati, o non vaccinati per scelta, consapevoli del rischio che si assumono. Marco non è un untore, è un bambino che vive in comunità e ha un sistema immunitario che sta crescendo con lui.

Alla fine interviene la farmacista senior che invita la mamma a fare un giro perché in quelle condizioni non è possibile fare il tampone. 

Io nel frattempo ho avuto l'esito (negativo), ma non riesco ad esserne felice come mi aspettavo. Nelle orecchie sento ancora il pianto di Marco e ho gli occhi lucidi: sto invecchiando, questo è sicuro. Corro verso un'edicola e compro un regalino per Marco, poi torno sui miei passi e lo cerco. È poco distante dalla farmacia, la sorellina ha già fatto il tampone senza nessun lamento (ah, le donne!), lui sta parlando con il papà. Si è convinto a tornare in farmacia, lo spirito  ribelle è stato quasi domato, lo leggo nei suoi occhi lucidi. Mi avvicino con il camioncino che ho comprato e gli dico "Ho saputo che c'è un bimbo coraggioso",  poi mi rivolgo al papà e gli chiedo "Posso darglielo?".

La risposta è stizzita:  "Ma che coraggioso. No signora, nessun regalo" e si avviano verso la farmacia.

Non giudico la risposta del papà perché forse al suo posto, stremata da un'ora  di contrattazioni e pianti, avrei risposto anche peggio alla signora che non si fa gli affari suoi.

Marco alla fine si sarà fatto il tampone per tornare a scuola. E la normalità si sarà ristabilita. A me invece viene in mente solo una citazione dal film Il Signore degli anelli: "Che cessi questa follia".



Costanza Marri