La festa della mamma

Giulio Reggio




Anche gli uomini educano…

Ho perduto mia madre, quando avevo 14 anni, dopo un periodo di tre anni passati quasi tutti in ospedale; ancora adesso ho la sensazione di essere rimasto orfano a 11 anni.

Questa dolorosa esperienza ha portato con sé una forte sensazione di precarietà e un perdurante timore di poter perdere all’improvviso le persone amate, timore che ogni tanto riaffiora ancora adesso, all’età di 73 anni.

Ho tuttora ben presente che per un lungo periodo le festività natalizie non erano per me fonte di gioia, ma motivo di tristezza e a volte di rabbia nel vedere i compagni di scuola, i ragazzi del quartiere, i miei cari cugini in compagnia di entrambi i genitori.

Mi sono chiesto e tuttora mi chiedo quali ricadute possa aver avuto questo lutto vissuto in adolescenza nel mio lavoro di formatore e consulente pedagogico.

Che cosa può aiutare a superare almeno in parte il dolore di una perdita o quanto meno a conviverci?

Nel tempo si è rafforzata in me la convinzione che le persone con le quali abbiamo stabilito una relazione significativa (non necessariamente duratura), i luoghi in cui viviamo, i libri e la musica, l’arte e il teatro possano essere di grande aiuto a rimarginare le ferite dell’esistenza, donandoci una speranza per il futuro.

Quali insegnamenti ne possono trarre in particolare coloro che sono impegnati nei servizi alla persona, a partire da quelli per l’infanzia?

Per chi è impegnato nel lavoro di cura e di formazione costituisce una grande risorsa la consapevolezza del valore che le nostre esperienze - piacevoli o dolorose – possono assumere nelle relazioni con i bambini, le famiglie e le educatrici/tori con i quali lavoriamo.

Che cosa sappiamo davvero delle persone che incontriamo nel nostro lavoro educativo o formativo?

Non conosciamo che una piccolissima parte della loro storia; dovremmo riflettere sul fatto che paure, silenzi, difficoltà ad esprimere i propri sentimenti, alcune manifestazioni di iperprotettività da parte dei genitori nei confronti dei figli, possano avere origine dalle vicissitudini dell’esistenza.

È una riflessione che rappresenta una forma di rispetto per i sentimenti dell’altro e ci permette talvolta di entrare in una comunicazione più profonda, fatta anche di attese; abbiamo però bisogno di tempo, quel tempo che nel mondo veloce di oggi sembra inesorabilmente sfuggirci.

Per i bambini, in particolare, la capacità dell’educatore di offrire accoglienza e ascolto nei momenti di difficoltà o di profondo disagio può fare la differenza perché fa intravedere loro la possibilità di essere compresi, rispettati, non giudicati e valorizzati.

Non è affatto facile, però, distinguere ciò che appartiene al nostro sentire e quello che invece appartiene al nostro interlocutore.

Ho ben presente quali echi risuonino in me quando nel lavoro di formazione entro in contatto con persone che hanno subito la perdita di una persona cara ed importante per la loro vita; ho spesso l’impressione di comprenderla immediatamente, ma in realtà ognuno ha una storia diversa anche se non si può negare la vicinanza che deriva da una comune esperienza di lutto.

Forse, come altri, ho cercato di trovare nel lavoro di cura anche la strada per convivere con la mia dolorosa esperienza.

Mi piace perciò concludere con un detto della filosofia cinese “Le cicatrici delle nostre ferite più dolorose – se rimarginate – sono un po’ come il letame: ha cattivo odore, ma concima”.


Giulio Reggio