La fatica di lavorare, la fatica di educare

 



Lavorare riposa Quando abbiamo pensato al titolo di questa rubrica, inserita in un contesto in cui si parla di educazione, scuola, infanzia, genitorialità, lavoro, etc… mi è venuto in mente immediatamente il nome “Lavorare riposa”, occhieggiando, del tutto inadeguatamente, alla raccolta di poesie di Cesare Pavese, nella quale il grande autore affronta il tema della solitudine, della fatica e dell’inutilità dell’azione.

Dicevo, del tutto inadeguatamente, è ovvio. Anche perché il concetto di lavoro, di cui parla Pavese, è del tutto diverso da quello a cui mi riferisco io.

Per me - ed è intuibile dal titolo - il lavoro vero e proprio, cioè quello retribuito, costituisce un momento di completa astrazione e riparo dalle mille beghe quotidiane che mi investono in qualità di donna, professionista e madre di famiglia.

La fatica di non lavorare

Sono solita dire ai miei clienti che dopo le 17.00 inizio il mio secondo lavoro, quello fatto di attività spicce, ordinarie, che non hanno nulla di concettuale ma presuppongono organizzazione e incastri millimetrici: prendere i bambini di ritorno da scuola, accompagnarli o comunque organizzare le loro attività sportive settimanali, fare la spesa se serve, preparare la cena e, nel frattempo, fare quella telefonata di lavoro che posso fare solo a quell’ora o inviare quella mail di cui mi sono dimenticata 4/5 ore prima (che è già un’era geologica fa!), salvo ricordarmi, solo alle sette di sera, che avrei dovuto scongelare quel dannato polpettone e per fortuna che hanno inventato il microonde…, ricordarmi di portare uno dei due dal dentista e magari passare un momento da quella mia amica per restituirle quel famoso contenitore in plastica che mi ha prestato mesi fa…

Ma racconto cose ovviamente scontate e non è su questo che vorrei soffermarmi, quanto, appunto, sul concetto del lavoro che, invece di stancare, riposa e sull’esempio che fornisco ai miei figli con tutto questo forsennato organizzare gli incastri e correre di continuo di qua e di là.

La GRANDE fatica

Alla fine, loro vedono raramente la loro madre al riposo: cioè in quella situazione standard in cui, tra la redazione di un atto e la telefonata ad un collega, tra un’udienza e uno scambio rapido di e-mail, le ore passano velocemente e trascorrono in una frenesia, certo, che però nulla a che fare con la fatica non solo mentale ma anche fisica che comporta correre di qua e di là, tra casa e piscina, alimentari e corso di pianoforte, con la perenne sensazione di avere dimenticato qualcosa...

Il tempo residuale che gli impegni familiari e lavorativi ci concedono è ridotto veramente al minimo e si approssima, tendenzialmente, al momento del calo della mia palpebra, raggiunto il quale anche quella giornata è finita e domani, appunto, è un altro giorno…

E allora, il collegamento con la disperazione di Pavese arriva quasi naturalmente, nel senso che il lavoro affatica perché faticoso e fumoso appare il traguardo.

Un traguardo che si intravede in lontananza ed è costituito, per lo più, dal desiderio di realizzare qualcosa di bello per sé stessi e per i propri figli, con l’illusione che la si realizzi in tempi brevi per poterne godere.

Quegli stessi figli che, però, vediamo solo qualche ora al giorno, con i quali cerchiamo di concentrare e di economizzare il più possibile il tempo che trascorriamo insieme, per non lasciare loro l’impressione che la nostra vita presente, e la loro futura, sia e sarà solo correre e correre e correre...

E, allora, eccola, la mia vera fatica, immensa, spaventosa, insuperabile: quella di fornire ai miei figli l’esempio giusto.

Ma qual è l’esempio giusto?

Quello di un genitore attivo e indaffarato che, però, riesce a prendersi il tempo per ascoltare i loro racconti (talvolta) noiosi, (spesso) sconnessi? per guardare insieme quel film col supereroe che altrimenti non avrebbe mai considerato o quel film degli anni ’70 - che per loro è paleolitico – “ma guarda che fico Robert Redford, figlio mio! Alla mamma piace tanto”? per fare colazione insieme nel fine settimana, lasciandoli sperimentare e assaggiando le loro bizzarre ricette? (io non cucino con loro, mi viene il nervoso… piuttosto li lascio fare!).

Questo è l’esempio di un genitore che dice: faccio quello che posso, bene, male, malino, ma faccio quello che posso e lo faccio per te e con te. Benissimo.

Ma poi? Tutto questo a cosa serve?

È sufficiente per contribuire alla costruzione di una vita serena e soddisfacente per i nostri figli o, in termini più generici e magniloquenti, al miglioramento complessivo della specie?

Di una specie umana che, soprattutto in occidente, galoppa incessantemente verso un futuro incerto e non propriamente luminoso?

Ma sento che la poetica del grande Pavese si sta reimpossessando di me, per cui mi fermo qui. Più che altro perché non sono assolutamente in grado di sostenerne la profondità di pensiero. Piuttosto, leggetelo!

Descrivo solo, con spiacevole consapevolezza, che sembra che la società tutta fornisca alle nuove generazioni soltanto esempi di fatica. E poco più.

Ma forse devo solo smettere di leggere Pavese.

 

Caterina Burgisano*

*Avvocatessa quando si riposa, madre per il resto del tempo