Incontro Katia Graziosi in una calda e assolata mattina di fine giugno. Lei è elegante come sempre. Mi aspetta comodamente seduta sotto il portico della sede dell’UDI di Bologna, associazione di cui è presidente. 

Mi accoglie con un sorriso e il suo modo gentile e al contempo fermo, un tratto che le è caratteristico e peculiare.

Sappiamo entrambe che questa sarà un’intervista che andrà dritta al cuore e come sempre quando mi appresto a fare un incontro di questo tipo mi sento un po’ inquieta. 

Non so mai fino a dove l’intervistato si spingerà a raccontare o dove invece si fermerà per imbarazzo, per ritrosia. Il tema che andiamo ad affrontare è delicato. Graziosi oggi ci racconterà la sua infanzia, un’infanzia tutta sua e tutta personale, certo, ma è anche un’infanzia che ci racconterà una società, un modo di vivere, un modo di educare che è stato tipico di Bologna, quando la rossa, era rossa non solo per i colori dei mattoni e dei coppi ma era rosso comunismo. 

Inizio col dire- attacca lei di slancio- che sono del ‘47 e quindi sono abbastanza vecchia per raccontare un’infanzia molto diversa da quelle che si vivono oggi. 


Partiamo con il raccontare dei tuoi genitori?

Loro si sono incontrati nel 1945. Si sono conosciuti ed innamorati all’indomani del 25 aprile durante la ricostruzione della fabbrica Ducati dove entrambi lavoravano e distrutta dai bombardamenti. Mia madre, Anna Zucchini, è rimase incinta e nel setttembre1946 quando si sono spostati lei iniziava ad avere un accenno di pancia. Era una donna decisamente controcorrente già antifascista aveva aderito ai Gruppi di Difesa della donna e poi partigiana e tra le fondatrici dell’UDI di Borgo Panigale ed ora pure comunista, sposava un comunista altrettanto convinto e politicamente molto attivo: mio padre Linceo Graziosi!

Come fu il matrimonio?

Si celebrò in sordina per via della evidente gravidanza. A quei tempi era uno scandalo, da allora è cambiata molto la morale e le libertà delle donne, e oggi in tanti vorrebbero rimetterci al nostro posto. Mio padre era più grande, aveva 11 anni in più e la famiglia di mia madre non era affatto contenta.  

Che matrimonio è stato? 

Mi hanno raccontato che non vi era nulla di festaiolo, sembrava un funerale! Le mie zie piangevano, la mamma non aveva un abito da cerimonia. Fu il primo matrimonio civile di Anzola dell’Emilia ed il sindaco si era sbagliato per gli aspetti amministrativi tant’è che il rito in Comune fu celebrato con 15 giorni di ritardo. Mia madre scrisse, di essere stata comunque molto, molto felice.

Tutto sommato un matrimonio, magari non voluto, ma non proprio osteggiato…

Mia madre non portò corredo, ma solo una piccola valigia. La sua famiglia non aveva possibilità però avrebbe potuto avere il corredo previsto dalla tradizione familiare : biancheria ricamata… E invece non ebbe niente! 

Dove andarono a vivere i due sposini?

Inizialmente dall’altra nonna, dalla madre di mio padre Argia. 

Come era questa nonna?

Era una donna d’altri tempi. Nata nel 1870. Era rimasta analfabeta poiché fin da piccola orfana di padre e madre era stata mandata a servizio e non aveva potuto neppure frequentare le scuole elementari. Raccontava che la prima volta che dormì in un letto fu quando si sposò, perché ne' a casa sua, ne' nella casa dove serviva, aveva mai avuto un letto suo… 

Ebbe una vita molto dura. Le è morto un figlio di soli vent’anni e ha patito moltissimo durante il fascismo quando mio padre fu messo in carcere.

Perché il papà fu carcerato?

Perché era comunista e antifascista. Ha scontato otto anni e mezzo, tra carcere e confino. Aderì giovanissimo e in clandestinità al partito comunista. La vita in carcere era molto dura senza i più elementari servizi, ad esempio, il water era il bugliolo, un secchio in comune con gli altri compagni di cella, che veniva svuotato un volta al giorno. E’ stato recluso in penitenziari lontani da casa ciò rendeva difficoltosi i contatti con la famiglia.

Eppure..

Eppure sono stati anni formativi sul piano culturale e politico, studiava si confrontava con i suoi compagni più istruiti, non si sentiva solo le carceri e le isole di confino erano affollate di uomini e anche donne perseguitati politici dal regime fascista. Era considerato un sovversivo verso il regime fascista ed era ovviamente schedato, la schedatura non era una questione secondaria nella vita quotidiana. 

Perché?

Perché se in città arrivava in visita un gerarca fascista, o vi era una ricorrenza di regime veniva fermato per tre giorni, il famoso fermo di polizia per una questione di sicurezza. Per questo motivo gli capitava di perdere di frequente il lavoro.  

Che lavoro faceva?

Era un operaio metalmeccanico specializzato. Ha molto amato il suo lavoro. Era bravo! E nonostante fosse un comunista, nonostante i tanti problemi dovuti al suo essere comunista con frequenti arresti, trovava facilmente il lavoro. Nelle officine i piccoli proprietari lo apprezzavano e non facevano troppo caso al suo essere antifascista.  

Parlava spesso del suo lavoro?

Non solo ne parlava, ma teneva sempre con sé  un attrezzo “il calibro”. Lo conservava in una scatolina e ogni tanto lo apriva e lo lubrificava con l’olio… Ci teneva molto. Da operaio specializzato era bravo a costruire pezzi unici, pezzi pilota che sviluppava dal disegno del tecnico. Era un lavoro di ingegno, ci metteva tutta la sua competenza ed esperienza. In generale gli operai specializzati erano orgogliosi del proprio lavoro. C’era scambio di informazioni tra colleghi ,energia, voglia di fare e crescere, era un’atmosfera molto stimolante. Per comprenderlo basta leggere l’Ocio, il giornalino degli operai della fabbrica Ducati del dopoguerra. 

Un altro modo di lavorare?

Un altro modo di vivere il lavoro. Diciamo che sul lavoro non c’era una gelosia del sapere. Si inventava, si condivideva, ci si confrontava. E del resto la Motor Valley, non la costruisci in due giorni ha una grande storia alle spalle. L’hanno creata in tanti, incrociando diverse competenze, passione e la cura del lavoro.  

Ti ha trasmesso questa passione per il lavoro?

Sia mamma che papà mi hanno trasmesso passione e senso di responsabilità nel lavoro. Ancora oggi in famiglia i miei cari mi rimproverano di dare troppa importanza al lavoro che oggi è naturalmente volontaristico. Ma per me è una necessità svolgerlo con il massimo impegno. 

Entrambi, papà e mamma erano comunisti e lo erano in un ambiente di comunisti. 

A quel tempo praticamente tutta Borgo Panigale – quartiere operaio - era comunista. Si respirava un’aria di solidarietà che man mano abbiamo perduto. La vita privata e la vita pubblica erano intensamente connesse. Ci si aiutava come si poteva, le porte delle case erano aperte... Papà e mamma erano nel partito, nel sindacato e mamma anche nell’UDI ed erano molto attivi, avevano ruoli e sguardi diversi rispetto alla politica. 

In che senso "sguardi" diversi?

Papà veniva da una esperienza politica e di vita differente da mamma, molto impegnato anche a livello istituzionale nel primo consiglio comunale di Bologna dopo la Liberazione non si soffermava mai alla superficie dei problemi sapeva essere critico nonostante la disciplina di partito ed il bello per entrambi erano le discussioni politiche il costante confronto che diveniva un arricchimento reciproco e che non si è mai interrotto neppure con la malattia di mamma.

Un esempio?

Ricordo che nel ‘55 mio padre fece un viaggio in Polonia. Non era semplice durante la guerra fredda per un occidentale entrare fisicamente nei paesi dell’est sotto il controllo sovietico. Era un viaggio insieme ad altri compagni del PCI di confronto e di scambio rispetto all’organizzazione del lavoro in fabbrica. Quando tornò non era entusiasta di ciò che aveva visto. Diceva che c’era un modo di lavorare impersonale, fondamentalmente disumanizzante, un modo che non rendeva le persone libere… Gli operai facevano solo gli operai, non gli era concesso di avere un orto proprio e i contadini che coltivavano grano, per fare un esempio, coltivavano solo quello… Ognuno faceva il suo lavoro che si incasellava con quello dell’altro, in modo meccanico… In generale quello che voglio dire è che mio padre non è mai stato condizionato dalle ideologie e sapeva guardare con occhi critici alla realtà che aveva davanti.

Cosa ricordi della tua infanzia?

Ho tantissimi bei ricordi. Era una vita plurale e di condivisione, non ero mai davvero da sola. Non avevo solo la mia famiglia su cui contare. La mamma aiutava tante donne e veniva aiutata. Io sentivo di appartenere ad una comunità... In fondo credo che il comunismo a Bologna abbia attecchito tanto bene proprio per questo senso di solidarietà e aiuto reciproco, di condivisione e di vita comune che ti faceva sentire protetta e proiettata verso il famoso “sol dell’avvenir…” Era tutto mischiato, la vita privata, la vita politica, la famiglia, i vicini… il cortile fulcro della socializzazione.

Certamente il tutto con l’obiettivo di una vita migliore per tutte e tutti.

Ricordi eventi particolari? 

Ricordo le riunioni affollatissime alla Casa del Popolo di Borgo Panigale. Ricordo le amiche di mia madre e le mie amiche che erano spesso le figlie delle amiche di mia madre. Ricordo la casa dove ho trascorso l’ infanzia. Era una parte di una casa padronale riattata e con la casa colonica vicina. Mio padre, che faceva parte del comitato per le case provvisorie,(tante furono distrutte dai bombardamenti) trovava casa per gli altri, ma non l’ha trovata per sé! Ci siamo trasferiti in alcune stanze di questa grande casa. Vi era un comune spazio esterno il cortile con prato e alberi. Gli amici, operai della Ducati, per regalo di nozze ai miei genitori realizzarono, con i pezzi di recupero della fabbrica, una porta finestra per consentire alla luce del sole di entrare nella cucina, che era stata rimediata senza finestre. 

E delle amiche di casa cosa ricordi?

Tra loro una grandissima solidarietà. Erano donne sorridenti nonostante le privazioni, le sofferenze della guerra, alcune erano giovani vedove con figli tutte impegnate nell’UDI. Quando mia madre fu arrestata io avevo otto anni. Mio padre, che era stato tante volte in carcere, non diede troppo peso all’evento. Le donne, le vicine, le amiche, le militanti di Udi non mi hanno mai lasciata sola. Io ad un certo punto protestai: volevo vedere la mamma! E non era mia abitudine fare capricci sia chiaro! E così mi portarono a vederla in carcere.

Perché arrestarono la mamma?

Perché distribuiva la mimosa alle donne l’otto marzo 1955 davanti alla fabbrica Ducati insieme ad un volantino non autorizzato e con la cassettina per le offerte. A quei tempi erano ancora in vigore leggi fasciste, poi le comuniste le donne impegnate nell’UDI non erano viste di buon occhio dalla polizia politica eravamo in piena guerra fredda. C’è un documentario Paura non abbiamo che racconta questa storia. Quando andai a trovarla una delle suore addetta alla sezione femminile mi voleva regalare caramelle e piccole medagliette di latta con l’immagine della Madonna. Io rifiutai tutto. Ai miei occhi di bambina la mia mamma era lì per causa sua e io non volevo accettare i suoi doni. 


Il quartiere era comunista, ma si arrestavano i comunisti?

C’era molta tensione dovuta ai grandi licenziamenti degli operai ed operaie dalle fabbriche bolognesi all’inizio anni ’50 inclusa la Ducati di Borgo Panigale e forte era la repressione delle forze di polizia. I comunisti i sindacalisti facevano paura e le forze di governo cercavano di ostacolare l’unione degli operai con manganellate e arresti. Eppure ricordo che sui muri del quartiere apparivano la mattina le scritte: “Abbasso Scelba” (allora ministro degli interni), oppure, “Viva il Pci” e la polizia si infuriava ma nessuno parlava …

Raccontiamo un fatto particolare? 

Ricordo che una domenica mattina molto presto era ancora buio, il figlio di un compagno bussò alla nostra porta. Cercava riparo dopo avere trascorso la notte ad attaccare sui muri volantini proibiti dalla polizia e lo stavano inseguendo. Nella fuga strappò i pantaloni. Mio padre lo accolse e andò a prendergli gli abiti della domenica e così ritornò a casa indisturbato e alla luce del sole mentre la gente per strada si fermava a leggere i volantini sui muri. Questo è un piccolo episodio che non ho mai dimenticato. Tra compagni ci si aiutava, trovavi rifugio e sostegno

Cosa ricordi della scuola?

La prima maestra Ada Lelli. Mio padre le parlò perché con mamma avevano deciso di esentarmi dalle lezioni di religione. Quando arrivava il prete la Lelli mi mandava in altre classi e io la vivevo come una punizione, ne parlai con i miei genitori e finalmente questo metodo cessò e restavo in aula con le mie compagne. Ero l’unica bambina in tutta la scuola a donare la mimosa alla maestra l’otto marzo. Ho avuto con la Lelli un rapporto epistolare che è durato anni anche dopo il mio matrimonio, ne conservo un ottimo ricordo. 

E le estati come le trascorrervi?

In colonia, spesso sull’Appennino e anche al mare in Romagna. Conservo ancora le cartoline che i miei mi mandavano. Ne ho una molto buffa, c’era scritto “il papà e la mamma ti mandano un bacione”, la giri e c’è la foto di Togliatti… Chissà dove era quando la scrisse mio padre, magari impegnato in qualche riunione di partito, quando gli capitò sotto mano una foto del segretario di partito, la girò la scrisse e me la inviò... Ma la foto di Togliatti era anche in casa accanto alla foto di Lenin e di Stalin. Quest’ultimo non aveva pace sul muro della cucina.

Perché? 

Perché mia madre lo appendeva, e mio padre lo staccava. Lui approfondiva sempre le cose e la foto di Stalin non la voleva. Iniziarono tra loro interessanti discussioni sul XX congresso dell’Urss e finalmente la foto scomparve. Forte della sua esperienza di perseguitato politico sapeva bene il significato della privazione delle libertà individuali ciò che era avvenuto in Urss. Non ha mai dimenticato i luoghi di pena da Civitavecchia a Lucera, a San Giminiano, alle isole Tremiti, di fatto erano divenuti i luoghi della sua università.

Da bambina sei andata “in trasferta” in Germania: come mai e cosa ricordi?

Ero in colonia in Appennino quando mio padre arrivò a farmi visita. Era un fatto eccezionale. Mi disse che si interrompeva la vacanza montana poiché sarei partita per la Germania per essere ospite di una famiglia di anti nazisti. Era un modo questo di costruire relazioni tra famiglie italiane e tedesche che erano state perseguitate durante il fascismo e nazismo. Erano trascorsi pochi anni dalla fine della guerra e i rapporti con i tedeschi erano molto tesi.

La famiglia che mi ospitava aveva figli della mia età. E di quell’estate ricordo la libertà assoluta dei giochi. Noi bambini partivamo all’avventura trai boschi e il lago dove si affacciava la casa della famiglia Lackner che mi ospitava insieme a Loredana pure lei di Borgo Panigale. Imparai a nuotare quell’estate… La madre che ci ospitava e che gestiva una pensioncina cercava di insegnarci un po’ di tedesco. E’ stata un’esperienza indimenticabile! Mi colpì molto la libertà con cui i bambini vivevano: andavamo al lago da soli, andavamo in barca sempre soli, senza alcun controllo da parte di nessun adulto. E’ stato molto bello e istruttivo.

I tuoi nipoti ti chiedono mai della tua infanzia o dei loro bisnonni?

Si, a volte racconto loro e rimangono molto stupiti. E’ cambiato tutto e per certi aspetti sembrano mondi lontanissimi. Loro però sono curiosi di sapere e questo è importante.


Laura Branca