Quando il mobbing entra a scuola





Parola a...Il termine “mobbing” (dall’inglese “to mob”, verbo che significa “aggredire, attaccare”) è ormai, da diverso tempo, entrato nel lessico non solo giuridico, ma anche comune, per indicare un insieme di comportamenti aggressivi e persecutori posti in essere sul luogo di lavoro, al fine di colpire ed emarginare la persona che ne è vittima.

Diversi tipi di mobbing

Esistono diversi tipi di mobbing. alcuni esempi e tipologie:

Mobbing ORIZZONTALE: è quello praticato da parte dei colleghi verso un lavoratore non integrato nell’organizzazione lavorativa per motivi d’incompatibilità ambientale o caratteriale, ad es. per motivi etnici, religiosi, sessuali etc.1



Mobbing VERTICALE, quando la condotta persecutoria coinvolge soggetti collocati a diversi livelli della scala gerarchica, dovendosi poi ulteriormente distinguere tra:



mobbing discendente, quando i comportamenti aggressivi e vessatori sono posti in essere dal datore di lavoro o da un superiore gerarchico della vittima (queste ipotesi vengono identificate anche con il termine “bossing”);

mobbing ascendente, quando viceversa è un lavoratore di livello più basso ad attaccare un soggetto a lui sovraordinato2;

Nell’ordinamento italiano non esiste una disciplina specificamente dedicata al fenomeno del mobbing: tuttavia, sono diverse le norme che – tutelando la salute, la sicurezza ed il benessere dei lavoratori – consentono di attribuire rilievo alle condotte vessatorie che si sono in precedenza descritte. Queste norme vengono richiamate:

A livello costituzionale (Artt. 2, 3, 4, 32, 35,40);

A livello di Legge ordinaria (Artt.2087, 21103,1175 1375,2043, 2049 del C.C.;

L. 300/1970 “Statuto dei lavoratori”;

D.lgs. 198/2006 “Codice delle pari opportunità tra uomo e donna”;

D.lgs. 81/2008 “Testo unico per la sicurezza sul lavoro”.


Il Mobbing sommerso  

Il 10 novembre 2023 la FILCAMS3 , aderente alla Cgil, ha pubblicato un articolo dove specifica che l'Italia è il Paese meno «mobbizzato» d'Europa. Secondo una ricerca dell'Istituto superiore per la prevenzione e la sicurezza sul lavoro (Ispesl) solo 4 lavoratori su 100, infatti, sono vittime di soprusi, intimidazioni o aggressioni psicologiche. Ma la realtà è ben diversa. 

Il mobbing, infatti, è spesso un fenomeno sommerso. Spiega Giacomo Rindonone, psicologo e coordinatore di un centro di ascolto Ispesl: «La percentuale dei mobbizzati in Italia supera ampiamente il 4% dalla graduatoria europea. Dall'esperienza del nostro centro, cui si rivolgono centinaia di mobbizzati posso affermare con tranquillità che sono almeno l'8% i lavoratori che soffrono di patologie legate al mobbing. In Italia, infatti, gran parte del fenomeno resta sommersa. Molte persone, lavorando in piccole realtà aziendali, non sono tutelate a livello sindacale e preferiscono mantenere il silenzio finché i sintomi psicosomatici che di solito accompagnano la vittima non si aggravano».
A guidare la classifica europea per settori sono la pubblica amministrazione e la difesa. In questi due campi, infatti, il 14% dei lavoratori è vittima del mobbing. Tra le categorie, la più colpita è quella degli impiegati, in cui le vittime arrivano al 79%. Il presidente dell'Ispesl,
Antonio Moccaldi, specifica, che «non dobbiamo abbandonare a se stessa quella piccola percentuale che ne è vittima».


Come uscire dal mobbing?

E poi aggiunge: «Per uscire dal fenomeno la vittima deve essere messa in condizione di esprimere liberamente il suo disagio». Da qui l'idea di istituire un centro di ascolto specializzato a Roma presso il laboratorio di Psicologia e Sociologia del lavoro, dove psicologi e medici preparati ad hoc aiutano il mobbizzato a prendere coscienza della situazione in cui si trova e, soprattutto, a uscirne. «Per risolvere il problema - auspica Rindonone - in Italia deve essere al più presto varata una legge che punisca atti del genere. Finché non saranno considerati reati, chiunque può mobbizzare senza temere di essere perseguito. Nell'Ue, insieme al Portogallo, guarda caso ultimo in graduatoria come noi, siamo l'unico Paese a non avere ancora una legge in materia».


In questo articolo sono presenti, oltre alle considerazioni generali, anche 2 storie di mobbing. Nomi e luoghi citati sono di fantasia, ma le vicende sono reali.


Mobbing in ufficio

Il mio datore di lavoro mi definì mentalmente instabile”.

Così inizia la storia di Nina, 24 anni all’epoca dei fatti. Nina era una ragazza che ha vissuto l’incubo del Mobbing per poco meno di sei mesi. Nina ebbe la sfortuna di entrare in ufficio e di scoprire il suo titolare in atteggiamento amoroso con un’altra segretaria. Nina, imbarazzata, non disse nulla e corse nella sua stanza. Con il suo titolare aveva rapporti familiari perché era un amico del suo papà. Il suo titolare cercò di negare l’evidenza, Nina lo pregò di non coinvolgerla in nessuna storia. Da quel momento iniziò l’incubo. Il titolare con la sua amante iniziarono a mobbizzare Nina.

Nina era una ragazza molto competente e capace nel suo lavoro. Gestiva l’agenda clienti seguendone sia l’aspetto commerciale che contabile. Giorno dopo giorno le fu tolta la gestione dei clienti. Non poteva rispondere al telefono perché fu ritenuta “non in grado di trasferire notizie”. Se qualche cliente telefonava chiedendo di lei, non le trasferivano le telefonate. Spesso, i due loschi individui, le chiedevano di andare nel loro ufficio, quando Nina arrivava nella loro stanza le dicevano “Nina, noi non ti abbiamo chiamata. Tu senti le voci. Devi farti curare. Nina incominciò a stare male, soffriva di incubi, attacchi di panico, insonnia. Incominciò ad avere paura di guidare l’automobile e non controllava più gli sfinteri. Non usciva più di casa, piangeva e tremava. Nonostante ciò continuava ad andare a lavorare. Veniva umiliata quotidianamente, ma lei resisteva. Decise di prendere contatti con un avvocato, una donna, un giudice del lavoro che teneramente accolse il suo dolore, il suo dramma, le sue paure. Le indicò la strada legale per poterne uscire. Nina la seguì passo passo. Si sottopose a venti sedute di psicoterapia all’Igiene Mentale della sua Città perché bisognava dimostrare che lei non fosse una persona “Instabile mentalmente”. Fu un percorso dolorosissimo per Nina. Quando finiva la terapia correva a casa e, tra le braccia del suo papà, piangeva disperata. Alla decima terapia la dottoressa, dopo che le fu raccontato il motivo di quella terapia, decise di interrompere gli incontri dichiarando Nina, perché serviva ai fini legali, una persona “Mentalmente sana”. Rimaneva un ultimo scoglio: non dimettersi, ma farsi licenziare per impugnare il licenziamento. Questa fase fu molto dolorosa. Nina, infatti, una ragazza onesta, dai sani principi, dovette mentire per il suo bene, per la sua liberazione. Un lunedì mattina, entrò nell’ufficio del suo titolare e gli chiese di licenziarla trovando una scusa banale “se mi licenzi, posso almeno presentare domanda di disoccupazione”. Il titolare abboccò. Il giorno seguente, dopo cinque anni di onorato servizio, Nina fu licenziata per “riduzione del personale”.

Parlò con i suoi genitori circa la possibilità di impugnare il licenziamento. La sua mamma non era favorevole, il suo papà si. Nina ascoltò il suo papà. Impugnò il licenziamento perché la riduzione del personale prevede che ad essere licenziato sia l’ultimo dipendente assunto, Nina era la prima, la segretaria più anziana in servizio. La causa andò avanti per cinque anni. Nina ebbe dalla sua parte dei testimoni schiaccianti: la segretaria di una Multinazionale che rappresentavano nel suo ufficio e un contabile di una nota azienda del Modenese. Dopo la vittoria, alla consegna dell’assegno per la conclusione della causa, il titolare guardò Nina e le disse “Eppure pensavo che tu fossi un brava ragazza”. Nina gli rispose “Pensavi bene, ma oltre ad essere brava, sono anche intelligente”.

In quegli anni Nina perse il suo papà. Quando Nina vinse la causa fece due cose: portò un fascio di rose rosse sulla tomba del suo papà e comprò un automobile.

Per Nina l’automobile rappresentava un mezzo che, per essere guidato, aveva bisogno dei piedi. I suoi piedi, metaforicamente, rappresentavano il modo per schiacciare la cattiveria e il dolore che le erano stati inflitti.


Mobbing a scuola

Ma chi ti credi di essere? Perché ti metti in mostra? Credi di lavorare in una scuola privata?”.


Una storia diversa, ma allo stesso modo tristemente simile a quella di Nina, è la storia di Alice.

Alice è, attualmente, un’insegnante della scuola dell’infanzia. È stata una bambina che, dopo le scuole medie, ha abbandonato gli studi. La scuola non le piaceva. Non le piaceva l’ambiente scuola, non le piaceva il modo di porsi degli insegnanti, aveva la nausea dell’odore dei libri. Eppure Alice era una bambina intelligente, studiosa, curiosa, ma abbandonò gli studi.

Qualche anno dopo, all’età di vent’anni, con l’aiuto del suo capo scout e grazie al discorso del giudice Paolo Borsellino che pronunciò nella cattedrale di Palermo all’indomani della strage di Capaci, sentì forte il desiderio di riprendere gli studi. Divenne assistente sociale prima, insegnante dell’infanzia poi. Alice viaggiò per dieci anni. Era una maestra pendolare. Era una maestra felice ed orgogliosa.

Dopo lunghi anni vinse due concorsi e riuscì ad avvicinarsi a casa. Il caso volle che fu trasferita nella scuola che frequentava da piccola. In quella scuola il tempo sembrava essersi fermato. Stessa freddezza, stesso grigiore. Adesso Alice doveva fare i conti anche con la freddezza che le riservarono la maggior parte delle colleghe perché ritenuta “presuntuosa e altezzosa”. Le dicevano spesso che “era troppo” e che “non doveva lavorare come se quella fosse una scuola privata”. Alice non accettava quel modo di pensare. Lei lavorava in quel modo perché le piaceva semplicemente il suo lavoro, non voleva dimostrare niente a nessuno. Eppure gli anni passavano e la situazione non migliorava. Alice era una bravissima insegnante, amata dai bambini e dalla maggior parte dei genitori. Tuttavia, questa sua capacità veniva affossata da tanta mediocrità. Riferivano al Dirigente Scolastico situazioni non vere, e modificavano eventi e circostanze. Alice incominciò a stare male. Soffriva di insonnia. Iniziarono gli attacchi di panico, comparvero eruzioni cutanee allergiche. Ingrassò tantissimo, piangeva e sentiva un profondo senso di solitudine. Rimpiangeva la scuola che aveva lasciato e viveva con profondo dolore. Ricordava le colleghe che aveva incontrato nelle altre scuole. Ricordava Cristiana che l’accoglieva con le tisane calde per farla riscaldare dal freddo. Ricordava Anna e Stefania che la coccolavano teneramente. Le mancava tutto di quella umanità. Discriminata, esclusa, trattata come una pezza da piedi, Alice non ha mai avuto la forza di denunciare.


Senza denuncia

Senza denuncia non può essere punito nessuno. L’impunità porta come risultato un modello tossico che, il più delle volte, non viene denunciato dalle stesse vittime di mobbing. Ci troviamo quindi di fronte a un numero indefinito di casi che, nonostante la gravità degli avvenimenti, rischia di passare inosservato in un silenzio in cui a vincere è l’omertà sia delle vittime che dei colleghi, che preferiscono rimanere neutrali davanti a ingiustizie evidenti e inaccettabili da parte di colleghi e dirigenti; questo quando ovviamente non sono loro i protagonisti e i primi responsabili delle maltrattamenti.


Cosa succede durante e dopo il mobbing?

La vittima di questa violenza si viene così a trovare in una condizione di isolamento sociale e di emarginazione, con forti ripercussioni sulla sua salute psicologica, psicofisica, e sull'ambiente esterno al posto di lavoro, coinvolgendo quindi anche la famiglia (“doppio mobbing”).4

Per il 79,9% delle persone intervistate il mobbing si materializza in critiche immotivate o nel ruolo di “capro espiatorio” per qualsiasi problema o errore. Un altro frequente comportamento vessatorio riguarda le scenate o le sfuriate da parte di colleghi o superiori, per il 62,7% dei casi. Alessia Traversa

Ad  essere colpite sono anche la qualità della situazione professionale (63,9%)l’immagine sociale all’interno del luogo di lavoro (64,1%) e le stesse relazioni sociali (50,4%)5 


Alessia TraversaInsegnante scuola dell’infanzia e/o pedagogista




Note

3 FILCAMS: Federazione Italiana dei Lavoratori del Commercio, Alberghi, Mense, e Servizi