La lingua madre. Tra apprendimento e relazioni






Esordio

"Quando inizia, nel percorso dell’evoluzione umana, la lingua, una lingua? Le manifestazioni di questo inizio sono tanto incerte e difficili da stabilire che la linguistica, la sociologia, l’antropologia, hanno lasciato da tempo ai margini questa domanda" 

(A. Leroi-Gourhan, 1964).

Ciononostante, è ricca di fascino e di potere euristico, ovvero della possibilità di aprire strade di ricerca intorno alla lingua, l’ipotesi che lo strumento, qualsiasi strumento-utensile, la selce appena scheggiata, un ramo, una pietra usati per potenziare l’azione degli arti, abbia portato con sé il nominare, il dar un segno che ne stabilizzasse l’uso e ne consentisse la specializzazione. 

Un segno rivolto a chi? 

A sé, fra sé e sé, fenomeno arcaico del pensicchiare (I. Matte Blanco, 1975) per guidare l’azione, ma soprattutto rivolto ad altri, in un gruppo. 

Un gruppo che apprende, migliora, stabilizza sia il nome che la fattura dell’oggetto, nell’uso comune. 

Se la parola, attualizzazione della potenza di parlare (dynamis ed energheia, seguendo i Greci) mostra questo esordio, mente e corpo, la mente nel corpo, sono sodali, embricati l’uno all’altro. Processo evolutivo micro, un accidente specie-specifico, in cui l’organo-bocca ha creato la funzione del suono modulabile, e processo macro che ha cambiato il rapporto fra il sapiens e le altre specie (S.J. Gould, 1992)

Ora, sia che la potenza di parlare abbia una marca genetica, frutto dell’evoluzione che predispone all’atto di parola, sia essa una generica capacità di apprendere, resta un’inconfutabile esperienza di ciascuno di noi che la lingua ci viene incontro nel rapporto con la Madre.

Brusio

La voce umana arriva al feto nel brusio dei suoni, del rumore, nella cassa di risonanza del ventre materno. 

La creatura umana, nella lunga neotenia che la rende fra tutti gli animali la più inabile alla nascita, ha bisogno di cura, di mani che reggano, di gesti che nutrano. 

E ha bisogno di parole che questi gesti accompagnino. 

Il grido, il pianto del neonato non sono solo effetto dell’aria che attraversa i polmoni, un semplice riflesso (L.Lurya,2020) ma, fin da subito, nello stupore del nascere, sono richiamo, segno di una presenza reclamante, una prima attualizzazione di quella potenza di parlare di cui ho detto. 

Questo segno esige una risposta da chi prende in carico il bambino, dal suo caregiver, per dirla in inglese. 

Questo carico lo assume la Madre, non solo biologica ovviamente, come desiderio della creatura, nel movimento di un doppio genitivo in cui la dimensione del peso personale, sociale del compito, non sempre è facile da riconoscere. 

La Madre desiderante vezzeggia con la lingua il suo bambino, gioca con la lingua lallando con il neonato, crea all’interno del contesto di vita il primo lessico famigliare, dà suoni e ritmo alla parole (F.De Saussure,1922), scava quel pozzo emotivo-relazionale da cui si continueranno ad attingere parole, espressioni, idiosincrasie linguistiche. 

Questi primi suoni nutrono i pittogrammi, prototipo di pensieri, immagini, figure, colori che sono destinati a restare nei sogni, nelle fantasie, nella creazione artistica, nel nostro foro interno, quel pozzo in cui caliamo la sonda della nostra privata, propria parola (P. Aulagnier, 1975).

La modalità con cui la Madre tratta la lingua alterna allegorie, metonimie, metafore, spostamenti di significato, alterazioni di esso dentro narrazioni, giochi linguistici, oltre il semplice nominare. L’indicare con la mano e con lo sguardo ciò che sta presso e anche quel che non c’è, nella modalità che sarà del bambino del far finta di, tutto questo è quel che consente alla creatura piccola l’accesso al simbolico, all’uso non solo strumentale della lingua (L.Muraro, 1998).


Insegnare

Si insegna la lingua? Se quel che ho scritto è valido, la lingua si può accompagnare più che insegnare, si può rinforzare appena essa si mostra, nel senso pieno, etimologico, dell’insegnare come lasciare, imprimere il segno (G.J.J. Biesta,2022). 

Succede, forse, un po’ come il camminare: si dà spazio e supporto al gattonare, al levarsi in piedi, e ciascuno prenderà la misura del proprio passo e della propria postura. 

Ma, se anche il movimento e il governo del corpo nello spazio, saranno conquista rischiosa e assai diversificata per ciascuno, è la lingua materna a costituire una sempre presente sfida. 

Le parole non saturano mai lo scarto tra il voler dire e il detto. In qualsiasi atto linguistico si mostrerà il lutto per la prima lingua lallata e la consapevolezza che non sempre l’altro da noi ci potrà intendere, come abbiamo creduto potesse fare la Madre. 

Resteremo impigliati in una continua traduzione, fra verità, verosimiglianza, menzogna. 

Sarà poi compito della scuola aprire il bambino a quella sorta di agone, a quel con-fronto che è lo spazio sociale oltre la consuetudine, la routine, la protezione tipica della prima parola scambiata. 

Sarà compito della scuola far correre il rischio dell’incontro con le altre lingue, anch’esse di Madre, soprattutto oggi, nel mescolarsi delle culture.


Per finire

La semplificazione operata dai media e dalla valutazione standardizzata della competenza linguistica tendono a ignorare questa complessità, nell’esordio e nella evoluzione. Le prove INVALSI, test di misura della comprensione del testo scritto (il fascicolo si intitola impropriamente Italiano), puntano alla lingua-codice, al nodo fra emittente-canale-ricevente come se l’efficienza, la competenza linguistica, stessero nel reperimento di semplice informazione. Se lo scopo è definire lo standard, troppo complessa è la sfida dell’ascolto, della scrittura, della parola scambiata. Dai brani proposti nei test, non a caso, è bandita la poesia, che attinge a quel pozzo emotivo originario di cui ho detto, che sa straniare e far provare meraviglia anche di fronte a ciò che è consueto, lo fa stillare di luci nascoste, difficili da piegare a un’indagine costretta in domande e risposte giuste/sbagliate. Dunque, forma ancora inaccessibile al moderno macchinismo, all’Intelligenza Artificiale (C. Milani, 2022;


Renata Puleo*

*Maestra di scuola primaria, direttrice didattica a Torino, dirigente scolastica a Roma fino al 2011. Si occupa di valutazione e lavora nel gruppo NoINVALSI


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