La fatica dell'impegno






Partecipare per crescere... Intercetto in gran parte delle persone, la condizione di sentirsi affaticati, demotivati, privi di desiderio ed energie in questo preciso momento storico, politico e sociale.

Come se tutti gli accadimenti degli ultimi anni (pandemia. guerra, disastri ambientali, morte ecc.) abbiano sdoganato un livello altissimo di preoccupazione, disagio, precarietà, da alimentare dosi massicce di stress psichico e fisico.

Un panorama abbastanza inquietante di persone di tutte le età ansiose e impaurite che cercano di tenersi a galla fronteggiando con i mezzi a loro disposizione le tante criticità familiari ed individuali determinate dalla crisi globale che sta attraversando l'intero pianeta.


La perdita di obiettivi e del senso di appartenenza


La fatica di "esserci" è figlia diretta dell'assenza di partecipazione e del sentirsi parte attiva di un progetto, di una visione, di una possibilità concreta di veder realizzati alcuni obiettivi che riteniamo importanti. Soprattutto in ambito educativo sentirsi impotenti e demotivati nel co-creare e condividere, in qualche modo penalizza e amputa quel fluire energetico necessario a far fiorire, germogliare, nutrire il nostro patrimonio emozionale, senza il quale tutto inaridisce e muore.

In questo humus trova spazio facile anche "la fatica"per l'impegno, come "alibi" all'immobilismo, alla lamentela querula, al qualunquismo e alla delega.

Dichiarare troppo spesso uno stato quasi cronico di " fatica" in qualche modo ti mette al riparo dall'assunzione di responsabilità, chi è " affaticato o presunto tale" sfugge ai suoi compiti, anzi i suoi carichi vengono depositati sulle spalle altrui.

Fatica vera o presunta?

La vita inevitabilmente ci mette di fronte a tante prove da affrontare, alcune sono particolarmente dolorose e difficili da attraversare. Senza dubbio si può fare fatica nel dover fronteggiare ad esempio, il dolore di una perdita o di una malattia, ma non possiamo permetterci il lusso di sostare oltre misura nella sofferenza. Se lo facessimo saremmo destinati ad entrare in uno stato irreversibile di cupezza, dolore, ombra. La fatica di vivere divorerebbe ogni nostra buona risorsa, facendoci scivolare lentamente nel cul de sac della depressione, alla fine non saremo più in grado di comprendere che nulla dura per sempre, compresa la sofferenza.

La fatica dei cambiamenti

Sicuramente la fatica di affrontare i vari cambiamenti e criticità esiste e prospera, ma si è anche rinforzata una attitudine sociale e diseducativa a risolvere anticipatamente qualsiasi problema ai nostri adolescenti fin dalla più tenera età. Noi adulti siamo troppo presenti, ma non sempre nella qualità educativa, piuttosto nel controllo e nella iper protezione più o meno esplicita, organizziamo la vita dei figli, quasi al dettaglio senza lasciare spazio all'ozio ( rigenerante) e al desiderio.

C'è poco spazio per l'improvvisazione, il guizzo, la sorpresa, la scoperta e l'esplorazione.

Per questo a volte, la "fatica" si sostituisce all'impegno e alla partecipazione attiva, perché manca il desiderio, l'entusiasmo, la responsabilità personale di poter dare un contributo creativo per realizzare un progetto o semplicemente per camminare nei percorsi di conoscenza con un passo più curioso, attento e con autonomia di pensiero.

Se c'è entusiasmo non c'è fatica

Dal mio punto di vista esperienziale, l'entusiasmo è l'antidoto alla "fatica" al ripiegamento su noi stessi, bisogna cercare, esplorare quali siano le nostre passioni, desideri, sogni. Non dovremmo mai abbandonare questo faro, che ci indica costantemente che solo attraverso la presenza consapevole, amorevole e creativa la nostra esistenza può avere un senso, solo nella partecipazione solidale al cambiamento personale e collettivo si rafforzano i legami di qualsiasi natura.

Vivere con la piena fioritura dei sensi non può diventare una fatica costante e ostativa, sarebbe come vedere di fronte a noi solo ostacoli da dover superare o muri da abbattere, la bellezza davanti a questa prospettiva scompare, si disintegra, insieme alla speranza di poter accedere alla nostra sacrosanta porzione di felicità.

La fatica come opportunità

Una difficoltà può essere vista e vissuta a seconda del punto di vista dal quale la osserviamo: o come opportunità di crescita e arricchimento o come impedimento e fatica a trovare una soluzione, che sfocia inevitabilmente in un annichilimento.

Mi fa una certa impressione come le difficoltà magari transitorie di un bambino/a o di un ragazzo/a ad esempio nella scuola, siano spesso immediatamente bollate, medicalizzate, circoscritte in diagnosi di difficile pronuncia e comprensione. Di fronte ad un passaggio diverso evolutivo, sembra che ci si debba rivolgere necessariamente all'esperto di turno, non possiamo ignorare l'avanzamento professionale dei logopedisti, psicologi, terapisti. Ovviamente non sto dicendo che un precoce intervento non sia utile e auspicabile, quello che mi lascia perplessa è il numero in costante aumento di queste " difficoltà" che nei decenni scorsi non si palesavano con questa frequenza, anzi erano transitorie e non necessitavano di interventi particolari, si risolvevano con una maggiore attenzione da parte degli educatori e della famiglia, cercando insieme soluzioni condivise.

La domanda sorge spontanea: perché abbiamo sempre più bisogno di delegare agli altri la risoluzione di qualsiasi problema?

Perché di fronte ad una frustrazione, la "fatica paralizzante," piuttosto che l'energia trasformativa di fare fronte a problematiche e stati d'animo, prende il sopravvento?

La fatica come bagaglio pesante

Ci sono storie assolutamente difficili, di reale sofferenza reiterata, sotto tutti i punti di vista, economico, sociale, basti pensare ai migranti che fuggono dall'orrore e dalla barbarie della guerra, torture, fame, stupri. Eppure nonostante la fatica sconfinata di affrontare un "viaggio" della speranza, che spesso li conduce alla morte, raschiano nel fondo della loro energia per dare una possibilità di vita a sé stessi e ai figli.

Di fronte a queste ingiustizie inaccettabili dovremmo essere grati di aver avuto solo la " fortuna" di nascere nell' emisfero giusto ( per ora) un motivo valido per restituire in termini di solidarietà, presenza civile ed etica, questa fortuna!

Siamo disabituati ad osservare le condizioni altrui, l'individualismo narcisista è sempre più presente a tal punto che anche un piccolo problema da affrontare a volte viene trasformato in una tragedia senza reale fondamento, così diventa tutto faticoso, pesante, un bagaglio immaginario che contribuisce a mantenere lo status quo e far chiudere ulteriormente queste persone nel loro giardinetto esistenziale, senza che abbiano sviluppato uno sguardo più ampio e disponibile sul mondo.

Allenarci a vivere pienamente

Vivere pienamente è un allenamento costante, ti devi confrontare con le paure e le fragilità. Nessuno è immune dai percorsi accidentati, dolorosi e faticosi. Ma è indubbio, soprattutto per chi educa, la responsabilità di non rimanere incatenati e sopraffatti dalla fatica, ci sono educatori che hanno usato a dismisura la condizione di " affaticati" gravando pesantemente sulle spalle delle colleghe/i, per anni si sono appoggiate senza assumersi nessuna responsabilità educativa. Un " rimorchio" pesante tirato avanti da chi non ha mai smesso di avere motivazione ed entusiasmo. Ma un barile se lo raschi fino in fondo, lo sfinisci! Così è arrivata la fatica vera per le educatrici e maestre presenti e consapevoli della loro delicata e importante funzione. Le altre si sono fregiate del diritto di sentirsi stanche e affaticate per un lavoro perlopiù inesistente vissuto per procura. Non va bene, non chiamatela fatica, semmai è opportunismo e furbizia.

Fatica e fatiche

Questo per dire che esiste una fatica vera dettata dall'impegno e dalla responsabilità e una fatica costruita a tavolino, dettata perlopiù dall'egocentrismo e dall'interesse personale. C'è una bella differenza! Generalmente gli individui che attraversano la "fatica vera" , cercano di superarla, si assumono la responsabilità delle proprie azioni, non fanno ricadere sugli altri la temporanea difficoltà, sono generosi, si mettono in discussione, evolvono, sono attenti e partecipi nella comunità in cui vivono, ne hanno a cuore le sorti e soprattutto hanno senso di gratitudine verso chi li ha aiutati nei momenti più bui a rimettersi in piedi, non utilizzano "la fatica" come un'arma a mira infallibile per sottrarsi pedissequamente e con spiccato narcisismo e freddezza ad ogni responsabilità che gli compete.

Con il senno del poi verso queste persone, avrei meno considerazione, ma un sano distacco gentile.


Anna Maria Mossi Giordano, già educatrice nei nidi pubblici di Roma 

 

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